Un 25 aprile mediterraneo
Riportiamo una riflessione, a firma di Toni Capuozzo, pubblicata in data 25 aprile 2020 sul suo profilo personale Facebook ( @dalvostroinviato)
Allora è un vizio. Lasciatemi raccontare il 25 aprile a modo mio. Che per me è un giorno di 75 anni fa in cui ci si libera dal fascismo, e inizia a nascere questa nostra bella e sfortunata Repubblica, e a prendere forma una buona Costituzione. E’ il giorno in cui si ricordano i partigiani che salirono in montagna o entrarono jn clandestinità nelle città, senza maledire, a distanza di quasi ottant’anni, quelli che indossando la camicia nera di Salò, come Dario Fo, credettero di non tradire la patria, o di servirla meglio. E’ chiara, per me, la distinzione dei valori: da una parte il fascismo delle leggi razziali, l’alleato del nazismo, che manda i ragazzi in una guerra sbagliata. Dall’altra i valori della democrazia. Solo quelli? No: spesso, anche quelli di segno, o sogno, opposto, contrario e simile al fascismo: il comunismo. Ciò che ha portato agli orrori che Pansa ha ricordato, e a quella Porzus vicino a casa mia, dove partigiani vennero uccisi non dai tedeschi o dai repubblichini, ma da altri partigiani. Insomma dovrebbe essere, il 25 aprile, una festa antifascista, orgogliosa e capace di compassione, senza odio. E del resto così la ricordo io, quando a celebrarla erano i partigiani, Pertini e gli altri: un po’ di retorica, ma li capivi. Adesso, sono i figli politici dei partigiani a indossare panni che non hanno mai vestito, medaglie che non hanno mai guadagnato, un antifascismo poco costoso e piuttosto redditizio, e piegare il senso della giornata all’attualità. Con il rischio delle cantonate. Erano quelli che temevano il rigurgito razzista contro i cinesi, visite alle scuole, aperitivi, involtini primavera ingoiati in dirette televisive, e non si sono accorti che dietro l’angolo c’era Covid 19.
L’altro ieri un giornalista bravo e coraggioso, Nico Piro – per me uno dei migliori della sua generazione – ha sollecitato Articolo 21 a intervenire a favore di Carlo Verdelli, direttore de La Repubblica, minacciato di morte –” morirai il 23 aprile” – da qualche squadrista social. Non è la prima volta che lo minacciano, tanto che il Viminale gli ha dato scorta. Ora. io conosco il padre di Art. 21, Beppe Giulietti, veneziano ironico e punto di riferimento per tante battaglie in difesa della libertà di stampa. E conosco anche Carlo Verdelli, da quando, giovane lui e un po’ meno io, abbiamo lavorato assieme a Epoca. Mi ricordo ancora, a dimostrazione di come in realtà capisca poco di carriere, quando gli dissi che mi dispiaceva avesse scelto il tavolo – credo da caposervizio, allora – invece della vita da inviato. Insomma voglio bene a tutti i protagonisti di questa vicenda (tranne ovviamente agli squadristi, che mi immagino adesso fieri dell’importanza assegnata alla loro vile bravata). E insomma il 23 aprile diventa il giorno di un tweet storm in solidarietà – ma le parole usate, nonostante la stringatezza dei social, sono più altisonanti – con Verdelli. E resto perplesso, perché la vicenda mi sembra ingigantita e spero che non prendano, i tre, il mio silenzio come un’assenza di solidarietà: c’è, ma senza trombe e tamburi, e senza prenderci troppo sul serio.
Ma, come in un vizio, cos’è successo, il 23 aprile ? Che per fortuna nessuno ha attentato alla vita di Carlo Verdelli, ma per sfortuna è stato licenziato, con tante grazie per il lavoro fatto e solidarietà per la storia delle minacce. Come l’altra volta: Il nemico dietro l’angolo non era il fascismo, ma il Consiglio d’Amministrazione. Un rigurgito aziendale.
Lo dico, con un po’ di ironia. E certo, come uno che non ha mai ricevuto minacce dai fascisti. No, sono finito direttamente all’ospedale, per aver provato a difendere un corrispondente locale de L’Unità aggredito da un manipolo. Ma era tanti anni fa, ero giovane, e non il tipo da porgere l’altra guancia. Quando ho avuto l’occasione ho restituito pan per focaccia, con gli interessi: ma non in due contro uno, non nottetempo, e non per lettere anonime: a mani nude. Con alcuni di quei nemici del tempo ho fatto pace, abbiamo sorriso dei tempi andati, abbiamo litigato ancora, con la serenità dei vecchi che iniziano a fare la pace con se stessi prima che con gli altri. Uno sono andato a trovarlo quando si stava spegnendo per il peggiore dei mali, prima che arrivasse il Covid 19.
Insomma: non sono ossessionato dal fascismo dietro l’angolo, non mi piace che si ingigantisca il pericolo fascista per far dimenticare gli orrori del comunismo, o peggio ancora per mettere sotto il letto la polvere o le carriere del presente: non mi pare quello il messaggio dei Matteotti, dei Gobetti, dei Parri, dei confinati e dei condannati a morte. Non mi piace che si utilizzino metodi che per me sono fascisti per praticare l’antifascismo: vi ricordate qualche protesta di Art. 21 di Giulietti, de La Repubblica di Verdelli, del mio giovane amico Nico Piro quando a Trento hanno cercato di togliere la parola a Fausto Biloslavo, altro bravo e coraggioso giornalista ? E mi pare che anzi l’antifascismo esca immiserito da tutto questo, acquisti uno spirito protervo, lontano dalla lezione liberale, azionista, cattolica, socialista che pure fu parte della Resistenza. Diventi, in due parole, qualcosa che tradisce se stesso, trasformandosi in un bonus elettorale, con sussulti per negare le foibe o impedire le manifestazioni per ricordare Ramelli, un fascista di 18 anni ucciso a chiavi inglesi, invece di invitarci a ricordarlo, per sapere dove porta l’odio: è questo il messaggio della Resistenza ? O è quello, piuttosto, dei suoi successori di mezz’età ?
Quest’anno niente manifestazioni, se non virtuali. Spiace, ma l’unica consolazione è che non assisteremo al triste rito della contestazione della Brigata Ebraica, che si vede non rientra nel perimetro dell’antifascismo autorizzato a celebrare la fine del fascismo. Al campo della Gloria del cimitero di Milano, il presidente della comunità ebraica Milo Hasbani non troverà fischi. Da tempo andare al corteo con la stella di David era una sfida. Ma credo lo sarebbe stato anche andarci, e mi sa che nessuno ci ha provato , con le stelle e strisce americane o l’Union Jack del perfido Boris Johnson. Il fatto è che a lungo il 25 aprile ha un po’ trascurato il ruolo degli Alleati, che risalirono la penisola per liberarla. Qualche volta sono andato a visitare, quando mi è capitato, i loro cimiteri, americani o polacchi. Senza dimenticare, anche qui, gli orrori delle guerre: la scuola di Gorla non l’hanno bombardata i nazisti, le donne di Cassino non le hanno stuprate i berlinesi. Ma senza dimenticare che sono in tanti ad aver fatto resistenza, senza la R maiuscola. Il superiore di mio padre Giovanni Palatucci, un funzionario di polizia che salvò migliaia di ebrei e morì a Dachau, pochi mesi prima della liberazione. Quegli infoibati che chi imbratta le lapidi del Giorno del Ricordo dimentica: membri del CLN, ebrei scampati al lager come Angelo Adam, socialisti e azionisti: avevano resistito. Aveva resistito recando messaggi partigiani Oriana Fallaci, presentata come una fascista malata di tumore al cervello dalla satira militante. Come i soldati e gli ufficiali italiani di Cefalonia, l’isola dirimpettaia di Locri, dall’altra parte dello Ionio. C’è voluto l’affanno di Ciampi per farci riscoprire quel massacro nazista dell’autunno del ’43 e farne una pagina di orgoglio. A massacro finito, per liberarsi dei corpi degli italiani uccisi i tedeschi accesero, con la benzina, pire di fuoco. Dalle quali salivano colonne di fumo, e i paesani dicevano che era la Divisione Acqui che andava in cielo. Dopo l’8 settembre gli ex alleati combatterono l’uno contro l’altro, e su 11.500 effettivi della Divisione ne caddero almeno 2500. Ma il peggio doveva ancora venire: fucilazioni di prigionieri inermi, lavoro coatto sull’isola, deportazioni in Germania. Una tragedia scomoda per i tedeschi, anche dopo. Perché autori del massacro non erano state le SS, ma la Wehrmacht, l’esercito regolare. E scomoda per gli italiani, anche dopo. Perché non era stata una rivolta antifascista, come pure si cercò di accreditare nella retorica resistenziale. Erano italiani che non si fidavano dei tedeschi, che erano convinti che non li avrebbero lasciati tornare casa anche se avessero ceduto le armi, e non ci stavano a perdere l’onore che restava. Furono traditi dai tedeschi, abbandonati dal governo Badoglio, dimenticati dagli Alleati, lasciati soli dai partigiani greci. Erano italiani, che non erano nati fascisti e non volevano morire da partigiani, che decisero, quando capirono di essere stati traditi, di vendere cara la pelle. L’ultimo sopravvissuto a Cefalonia, il trentino Bruno Bertoldi, ha compiuto 100 anni il 23 ottobre 2018. Un traguardo che uno preferisce non cercare come stia adesso, non è un paese e neanche il momento per i vecchi.
Ma io qui voglio solo ricordare Evanghelia. Locatelli Giuseppe – metto prima il cognome e poi il nome, perché era un soldato italiano – l’ha portata a Quinzano d’Oglio, provincia di Brescia, tanti anni fa. Lei, adesso, vedova novantunenne, era nella casa di riposo di Robecco, dove il Covid se l’è portata via. Evanghelia era cresciuta nell’orfanatrofio di Razata, un paesino di Cefalonia. Lì, ferito, si era rifugiato il soldato Giuseppe Locatelli, nascosto dalla suore. Riuscì a tornare a casa, due anni dopo. E con lui c’era la sedicenne Evanghelia. Avevano avuto cinque figli (gli avevano dato nomi greci italianizzati, togliendo la esse finale: Spiro, Anastasio, Dimitri). Come la madre, anche uno di loro, Angelo (Anghelos, per la madre), 55 anni, è stato portato via dal Covid 19. Quest’estate aveva in mente di andare a Cefalonia. Sarebbe andato sulla collina di Argostoli, dove c’è il monumento dedicato ai caduti della Divisione Acqui, quella di suo padre.
Si può celebrare il 25 aprile senza per forza spargere odio sul presente, o sul sangue che è stato versato, vincitori e vinti. E’ una guerra finita da tempo, possiamo dire: mai più a tutto questo. Ma già il fatto che tanti rimpiangano le due ideologie fatali del ‘900, fascismo e comunismo, che hanno avuto la fortuna di non vivere, testimonia che sono rimasti ai ceppi di partenza, non sono capaci di nostalgia del futuro. Pazienza: se qualcuno si illude, scrivendo minacciose lettere anonime o colonizzando le curve degli stadi di risuscitare il fascismo, è fuori dal tempo massimo. E lo è anche chi da antifa zittisce un conferenziere o insulta la Brigata Ebraica, chi è convinto davvero che il fascismo sia dietro l’angolo, persino nella richiesta dei governatori del nord di chiudere le scuole o in qualche delirio di teste vuote sui social. Se pensa di essere un partigiano che sale sui monti – magari con la app per essere tracciabile- per ricacciare il ritorno del fascismo di quegli altri, sono film che si fanno loro. Io continuo a preferire Mediterraneo.
[Fonte: https://www.facebook.com/dalvostroinviato/posts/10156864010100811?__tn__=K-R – Lettere da un paese chiuso 63] [Foto: Luca Rossato – www.lucarossato.com]