Partecipazioni statali verso una nuova primavera
Riceviamo in Redazione, e riportiamo, l’articolo a firma di Carlo Manacorda *, pubblicato su “www.nazionefutura.it” in data 20 aprile 2020
Sulla base delle soluzioni prospettate dal Governo Conte, due casi recenti fanno pensare che ci si avvii verso una nuova primavera delle partecipazioni statali. Ci riferiamo ad Alitalia e Ilva per il cui salvataggio si prevedono robusti interventi di finanza pubblica fino a ipotizzarne la nazionalizzazione.
Alitalia ― Fondata nel 1946, la “società di bandiera” per il trasporto aereo era già parte del sistema delle partecipazioni statali essendo di proprietà dell’IRI, l’allora più grande società partecipata dallo Stato.
Giunta sull’orlo della bancarotta, nel 2008 viene privatizzata. Nuovamente in stato fallimentare, ritorna in mano pubblica con l’acquisizione, da parte di Poste Italiane (società con capitale maggioritario dello Stato), di circa il 20% del capitale. Continuando ad accumulare notevoli perdite di gestione, nel 2017 è posta in amministrazione straordinaria e se ne avvia la vendita. Intanto lo Stato, per assicurarne la sopravvivenza, le concede, nel 2008 (Governo Berlusconi), un prestito di 300 milioni (mai restituito), nel 2017 (Governo Gentiloni) un secondo prestito di 900 milioni e poi, nel 2019 (Governo Conte), un terzo prestito di 400 milioni (prestiti di incerta scadenza).
Falliti tutti i tentativi di vendita, il Governo Conte constata che per Alitalia non esistono condizioni di mercato. Però afferma che, per la società, non ci sarà “alcuna eutanasia”. Per salvaguardare i posti di lavoro, i Ministri Di Maio e Patuanelli non escludono un ingresso diretto del Ministero dell’economia (ovviamente attraverso Cassa Depositi e Prestiti diventata, da anni, il bancomat del Ministero). Osserva Patuanelli che “di fatto Alitalia non è mai stata privatizzata perché non ci si è riusciti”.
Ilva ― La vicenda Ilva è simile a quella di Alitalia, forse un po’ più complessa. Già Italsider, società della galassia IRI, Ilva viene privatizzata nel 1995, e ceduta al gruppo industriale Riva, al tempo il maggiore gruppo siderurgico italiano. Nel 2012, una vasta inchiesta per reati ambientali porta l’Ilva al sequestro. Per salvaguardare lo stabilimento e l’occupazione, viene commissariata dallo Stato e si avvia una gara per trovare un acquirente.
Nel novembre 2018, diventa di proprietà della multinazionale dell’acciaio ArcelorMittal. La nuova proprietà pone però una condizione irrinunciabile: godere di immunità penale per i fatti giudiziari del passato (scudo penale). Nel novembre 2019, ArcelorMittal comunica l’intenzione di recedere dal contratto di acquisto, dopo che l’allora Ministro per lo sviluppo economico Luigi Di Maio ha avanzato ipotesi di illegittimità della gara (che però l’Avvocatura dello Stato dichiara inesistenti) e dopo i pasticci intervenuti circa la non concessione dello scudo penale voluta dal M5S.
Il problema torna dunque nelle mani del Governo. Il Presidente del Consiglio Conte, anche in considerazione della perdita di migliaia di posti di lavoro, non esclude l’intervento dello Stato per la stabilizzazione dell’Ilva. In definitiva, ne ipotizza la nazionalizzazione.
L’epidemia di Covid-19 ha distolto l’attenzione del Governo dai casi Alitalia e Ilva, per il momento passati in seconda linea. Che però, prima o poi, dovranno essere risolti. Se si confermassero le intenzioni del Governo Conte per una nazionalizzazione delle due società ― o comunque per una presenza significativa dello Stato nel loro capitale ― si porrebbe ancora una volta la questione della presenza dello Stato in attività produttive.
Com’è noto, nella dottrina economica la questione prese forma a seguito della grande crisi mondiale del 1929. Le concezioni liberiste fino ad allora dominanti (lo Stato deve svolgere soltanto le sue funzioni istituzionali, e deve stare fuori dal mercato, cioè da tutto ciò che riguarda lo scambio di beni e servizi) dovettero lasciare spazio ai nuovi criteri economici propugnati da Keynes.
Nelle fasi depressive del ciclo economico, è lo Stato che, utilizzando la finanza pubblica, deve ridare slancio all’economia. In altre parole, lo Stato si fa imprenditore e, con denaro pubblico acquisito anche attraverso l’indebitamento, ricrea le condizioni per un ordinato sviluppo della domanda e dell’offerta (facendo investimenti pubblici, crea posti di lavoro, ridà reddito ai lavoratori che potranno quindi accedere nuovamente ai consumi, con beneficio per i produttori privati di beni e servizi. Si crea cioè il virtuoso “effetto moltiplicatore” ipotizzato da Keynes).
Fu in quegli anni (1933, istituzione dell’IRI, Istituto per la Ricostruzione Industriale) che, anche in Italia, lo Stato diventa imprenditore acquisendo pacchetti azionari di società ed enti. Nasce un vero e proprio sistema di partecipazioni statali. Il sistema diventa sempre più ampio tanto che, nel momento del massimo fulgore, lo Stato è presente in oltre 1.000 società ed enti e non di poco conto: ENI, RAI, STET, SIP, come già detto Alitalia e Italsider, ecc. (si diceva che il sistema andava “dai transatlantici ai gelati”, alludendo a Fincantieri, che costruiva navi, e a Sme impegnata in aziende alimentari, tra le quali le salvate Motta ed Alemagna).
Per coordinare tutte queste attività, nel 1956 si istituisce il Ministero delle partecipazioni statali.
Formalmente, il sistema delle partecipazioni statali è cessato nel 1993 con la soppressione del Ministero omonimo. La soppressione è avvenuta anche in conseguenza di regole europee che impediscono gli “aiuti di Stato”. Infatti, se il mercato unico europeo è volto a creare una competitività tra aziende, queste non devono avere sostegni da parte della finanza pubblica che darebbe loro condizioni più favorevoli nel confronto con i concorrenti. In sintesi, l’Unione europea vorrebbe che il mercato fosse in mano soltanto a privati.
Chi tuttavia ritenesse che il sistema delle partecipazioni statali sia finito nel 1993 con la soppressione del Ministero sbaglierebbe. Nonostante le numerose leggi che ne imporrebbero la scomparsa, le partecipazioni sono proseguite ininterrottamente non soltanto per lo Stato, ma si sono estese anche a Regioni, Province, Comuni, Camere di commercio, Università, ecc. fino a totalizzare oltre 6.000 soggetti che registrano la presenza nel capitale di denaro pubblico[1].
Uno spaccato aggiornato al 2020 ― benché limitato ma estremamente illuminante ― è rappresentato dalle partecipazioni possedute dal Ministero dell’economia (tra parentesi, le percentuali di possesso). Società quotate: Banca Monte Paschi di Siena S.p.A.(68,25%); Enav spa (53,28%); Enel spa (23,59%); Eni spa (4,34% + 25,76% tramite Cassa depositi e prestiti); Leonardo spa (30,20%); Poste italiane spa (29,26%+ 25,76% tramite Cassa depositi e prestiti). Società con strumenti finanziari quotati: Amco spa – Asset management company spa (100%); Agenzia Nazionale per l’Attrazione degli Investimenti e lo Sviluppo d’impresa spa (Invitalia) (100%); Cdp – Cassa depositi e prestiti spa (82,77%); Fs – Ferrovie dello Stato Italiane spa. (100%); Rai – Radio televisione italiana spa (99,56%). Società non quotate: Arexpo spa (39,28%); Consap – Concessionaria servizi assicurativi pubblici spa (100%); Consip spa. (100%); Equitalia giustizia spa(100%); Eur spa. (90%); Gse – Gestore dei servizi energetici spa (100%); Invimit Sgr – Investimenti immobiliari italiani società di gestione del risparmio spa (100%); Ipzs – Istituto poligrafico e zecca dello Stato spa. (100%); Istituto luce – Cinecittà srl (100%); Mefop – Società per lo sviluppo del mercato dei fondi pensione spa (59,05%); Ram – Rete autostrade mediterranee spa (100%); Sogei – Società generale di informatica spa (100%); Sogesid spa (100%); Sogin – Società gestione impianti nucleari spa (100%); Sose – Soluzioni per il sistema economico spa (88,8%); Sport e salute spa (100%); STMicroelectronics holding N.V. (50%); Studiare sviluppo srl (100%).
Ed è qui che si pone la domanda: un sistema con queste caratteristiche si giustifica? In altre parole, va bene ciò che il Governo Conte potrebbe decidere per Alitalia e Ilva ― ma il discorso vale per tutte le situazioni già presenti, in parte elencate nella nota ― oppure, in condizioni di normalità (cioè non in momenti eccezionali), lo Stato dovrebbe stare fuori da società, enti, consorzi e quant’altro, utilizzando il denaro pubblico soltanto per lo svolgimento delle sue funzioni istituzionali? Keynes parlava di momenti di recessione e di utilizzo di denaro pubblico per rilanciare l’economia attraverso investimenti; non per salvare aziende decotte delle quali il mercato ha già dichiarato la morte.
E’ del tutto evidente che la risposta a questa domanda tiene conto di vari elementi tra loro contrapposti.
Una telegrafica risposta per il no dovrebbe venire dalla semplice osservanza delle norme europee, tuttavia totalmente ignorate dal nostro come dagli altri paesi dell’Unione europea (gli europeisti credono nell’Europa a parole e quando fa comodo). Lo Stato (o meglio coloro che lo governano indipendentemente dal colore politico) ama intromettersi, costantemente, dovunque è possibile, e non soltanto nei momenti di crisi del sistema economico.
A maggior ragione, là dove tintinnano zecchini: non si sa mai, qualche convenienza potrebbe sempre esserci. La stessa inosservanza si manifesta per le norme interne. Non c’è stato governo, di destra o sinistra, che non abbia tuonato contro le partecipazioni pubbliche, fino a decretare date per la loro cessazione. Ma gli stessi governi ― ripeto di destra o sinistra ― hanno poi creato le loro partecipazioni, dando vita a economie parallele presentate come modelli di alto valore per l’attuazione delle politiche pubbliche e, quindi, irrinunciabili.
Punto unificante per tutte: essere alimentate da denaro pubblico anche in presenza di perdite miliardarie.
Altre risposte, per il sì o per il no, vengono da ragionamenti più articolati. Partiamo dall’elemento ideologico.
Se sei incline a formule di stampo liberal-liberistico, non ami uno Stato che s’impiccia di tutto. Vorresti che in economia (e non solo) lo Stato si limitasse a dettare regole, essere cioè “regolatore” di attività e non “gestore” di esse (neoliberismo). Se, per contro, ami forme di statalismo dirigistico, le partecipazioni statali e le nazionalizzazioni diventano i veri modelli da perseguire.
Orbene, guardando al quadro esistente al riguardo nel nostro Paese, non si può certo dire che ideologie liberali siano andate per la maggiore. Un’ulteriore botta sarebbe data se andassero in porto le scelte del Governo Conte per Alitalia e Ilva.
Chi governa seguendo l’ideologia statalista, per abito mentale considera assolutamente irrilevanti le regole della buona gestione (regole che spesso ignora). Le casse pubbliche sono lo strumento per attuare i suoi piani. Conseguentemente, poco importa che i conti pubblici diventino disastrosi. Io comando e io dispongo (scordando totalmente che il denaro pubblico è denaro dei cittadini).
Comportamenti di questo genere appaiono ancora meno accettabili se chi governa non ha investiture piene derivanti da competizioni elettorali, oppure ha perso la rappresentanza di ampie volontà popolari.
E c’è ancora un elemento che contraddistingue il seguace di linee dirigistiche. Il suo Stato non deve creare ricchezza e valore, ma deve perseguire ogni forma di assistenzialismo e di sussidio possibile sia se concesso a cittadini, sia se dato alle imprese. Deve dirsi che costoro ― la cui risposta alla domanda iniziale è decisamente per il sì ad ogni forma di partecipazione pubblica ― nulla dicono in merito a chi paga il loro assistenzialismo.
E ben si sa che chi paga è sempre il cittadino attraverso la spremitura fiscale.
Concludendo, c’è però un pensierino malizioso che si fa strada quando di parla di partecipazioni statali. Quando di esse esisteva addirittura il ministero, correva voce che fossero un buon “terreno di pascolo” per i partiti politici allora dominanti: Democrazia Cristiana, Partito Comunista Italiano e Partito Socialista Italiano (anche i partiti minori qualche volta venivano ammessi al pascolo).
Vuoi che per caso il mantenimento, l’ampliamento e la rivitalizzazione delle partecipazioni statali non siano finalizzati alla conservazione anche di questa pratica?
Non vorremmo pensarlo, ma le lotte che si combattono in questi giorni tra i partiti che attualmente governano il nostro Paese proprio mentre si rinnovano i massimi vertici delle società partecipate dallo Stato inducono a ritenere che così potrebbe essere (certamente solo per “onestà”, “onestà”, “onestà”).
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[Fonte: http://www.nazionefutura.it/economia/partecipazioni-statali-verso-una-nuova-primavera/]