L’esito elettorale può sancire una definitiva irrilevanza dei cattolici?
Riportiamo l’articolo, a firma di Marco Margrita, pubblicato sul sito della Fondazione Italiana Europa Popolare l’11 aprile 2018
Il Parlamento uscito dal voto del 4 marzo può essere definito post-cattolico. Esito di una fase post-politica del cattolicesimo, sintetizzabile con la formula: “sembra non esistere più un voto da cattolici, ma soltanto più il voto dei cattolici” (distribuito su tutte le forze politiche, senza una sostanziale originalità di giudizio). I numeri ci dicono che tutte le proposte, tanto quelle moderate-centriste quanto quelle radicali-identitarie, non hanno inciso. Si potrebbero fare delle distinzioni, ma sarebbe un’analisi con un che di feticista: occorre accogliere l’evidenza di una sconfitta.
Questo esito elettorale può davvero sancire una definitiva irrilevanza dei cattolici? Certifica un atrofizzarsi della capacità creativa (di pensieri e di opere) dei credenti nel socio-politico?
A modesto avviso di chi scrive, no. Pur non occultando l’insufficienza degli strumenti di rappresentanza che si sono connotati (almeno nominalmente) per lo specifico cattolico. E non ci riferisce solo a quelli che hanno concorso alla competizione, ma anche a quelli che si definiscono pre-politici (movimenti, reti più o meno strutturate, soggetti di cultura politica).
Come ha fatto notare Francesco Belletti, in un recente articolo su “Avvenire”, “oltre e prima ancora che ‘i cattolici in politica’, è scomparsa dal dibattito politico la prospettiva di ‘un popolo in azione’, l’idea che la buona politica – non solo per i cattolici – è quella capace di valorizzare e promuovere la capacità di auto-organizzazione della società, di riconoscere l’associazionismo, il volontariato, i comitati di quartiere, le esperienze di auto-mutuo aiuto: tutti gesti politici, tutte azioni che cambiano il volto di una comunità, spesso nel faticoso lavoro delle relazioni brevi, del vicinato, del territorio. E che partono dall’azione sociale, non dal progetto politico”.
La disintermediazione e il leaderismo come narrazione trasversale ha costruito un’egemonia che ha delegittimato ogni “corpo intermedio”, in quanto tale e non per qualche comportamento da sanzionare (ve ne sono stati) di questo o quello.
Questo è il contesto in cui le varie formule di concretizzazione di presenza politica dei cattolici, anche quelle non settarie ma aperte agli orizzonti della collaborazione responsabile, sono apparse incomprensibili (quindi irricevibili) per l’elettorato. In primis, per gli stessi cattolici.
Al di là della vulgata dominante (imprescindibilità del superamento dei “corpi intermedi”), il dinamismo della società è ancora alto e importante, forse privo di una radicata coscienza politica. In questo dinamismo, i cattolici sono tutt’altro che comprimari. Per quanto vittime di una certa visione ancellare, pensandosi troppo spesso quali meri e neutri erogatori di servizi.
La fase di ingovernabilità che stiamo attraversando, che comunque difficilmente condurrà a un nuovo voto a breve, può rappresentare un’occasione per una riscossa di quel “popolo in azione”. Una riscossa certo extraparlamentare, ma non per questo non politicamente pesante. Un protagonismo che ha bisogno di nuovi leader. Occorre ammettere, infatti, che è superato tutto quel ceto politico “professionalmente cattolico” che ha agito nella fase della diaspora e del ruinismo.
Nella costruzione di questa nuova fase c’è un primo appuntamento che non può essere colto: le elezioni amministrative del prossimo 10 giugno, che vedranno coinvolti circa 800 Comuni. In quest’occasione, è facile prevederlo, si vedranno molti protagonisti della “società civile organizzata” accogliere la sfida del servizio nelle istituzioni locali in nome del civismo, più che per rispondere al comando di un partito o di un movimento. Tra questi un gran numero proveranno dalle fila del mondo cattolico. Con costoro, senza voler imporre un “progetto partitico” che non è nelle cose, ma attivandosi per un censimento capillare, si può costruire una piattaforma valoriale e identitaria che abbozzi una convergenza in fluido strumento volto a dare visibilità e gambe a un “civismo nazionale”. Questa forza sociale può determinare una governabilità diffusa, non meno importante della formazione di un governo. Può suscitare, questa trama di persone che s’incontrano nel comune desiderio d’edificare “bene comune” partendo dal basso, una robusta minoranza creativa capace di dar voce ai bisogni profondi della maggioranza, superando la politica come mero fatto comunicativo-propagandistico. Quasi “cingendo d’assedio il Palazzo” per non far dimenticare, a chi lo abita con antica o recente prassi governista, le necessità e l’animo profondo del popolo.
A chi teorizza la possibilità di ritorno di un partito e a chi, all’opposto, si rassegna a qualche astuto collateralismo a geometria variabile sembrerà troppo poco o velleitario. Ci permettiamo di ricordar loro quanto si dice abbia sostenuto San Francesco: “Cominciate col fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile. E all’improvviso vi sorprenderete a fare l’impossibile”.



