È scoppiata la bolla di Torino Città senza rotta e leadership
Riportiamo l’articolo pubblicato su “Lo Spiffero” il 6 ottobre 2017
Se il dito, anziché la luna indica un bicchiere mezzo pieno (o mezzo vuoto) resta pur sempre quello sguardo sul dito. È quel che sembra accadere, in questi giorni, dopo il j’accuse di Chiara Appendino ai suoi predecessori con il disvelamento da parte della sindaca grillina dei debiti prodotti e accumulati dalle amministrazioni di centrosinistra, i cui esponenti e protagonisti – da Piero Fassino a Sergio Chiamparino – non hanno esitato a rispondere con piccature e argomentazioni. Mossa azzeccata quella della Appendino, a giudicare dai cori di approvazione levatisi in direzione della prima cittadina e nei quali cantano pure molti di coloro che di quella stagione, additata dalla sindaca e rivendicata dai suoi predecessori, sono stati partecipi attivi e non di terza fila.
La giovane bocconiana, figlia di quella borghesia industriale non certo spettatrice dei destini degli ultimi decenni della città, rischia tuttavia di guardare il suo dito – quei debiti che pure ci sono – senza allungare lo sguardo ai motivi reali che non solo li hanno originati ma hanno portato il capoluogo verso un declino e una perdita di identità del suo tessuto socio-economico. È la Torino disorientata dall’alternarsi di segnali ripresa con quelli di un aggravamento della crisi, la città (e il suo hinterland) che dal 2008 al 2016 è al secondo posto nella triste classifica nazionale delle metropoli per saldo negativo tra imprese nate e imprese chiuse e dove si consuma il paradosso di città tra le più vecchie e invecchiate d’Europa, che fatica a dare lavoro ai giovani i cui livelli di disoccupazione sono tra i più alti in ambito europeo.
È la Torino che la rappresentazione, puntuale e circostanziata, dell’annuale Rapporto Rota non fa che confermare nell’immagine che molti hanno da tempo ben chiara. Non stupisce, né sorprende neppure la riflessione affidata alla conclusione dello studio sulle ragioni della mancata “piena consapevolezza” sia tra i cittadini sia tra i membri della classe dirigente locale dell’attuale travaglio. È quello che i ricercatori definiscono “effetto anestetizzante di una certa retorica autocelebrativa basata sulla parola d’ordine della città migliorata e su alcune ricorrenti esemplificazioni: le piazze-salotto del centro, le code di turisti ai musei, la movida, i trionfi della Juventus, il prestigioso Politecnico e (ultimamente un po’ meno citato) il successo olimpico del 2006”. Per gli analisti “se è indubbia l’esistenza di tali punti di forza, il rischio è che diversi preoccupanti segnali di criticità sociali ed economiche moltiplicatisi negli anni vengano derubricati a effetti temporanei della crisi, a problemi comuni a tutte le città, in tal modo esorcizzando le debolezze strutturali che gravano, spesso più che altrove, sul contesto torinese”. In parole povere, il tracollo della stagione fordista è stato narcotizzato, vagheggiando la trasformazione dell’antica capitale ferrigna in un Eldorado del loisir e dell’effimero. Una bolla destinata prima o poi a scoppiare.
E così Torino si trova oggi smarrita, costretta a dover “recuperare la rotta”, come efficacemente è intitolato il report da qualche giorno sul tavolo di alcuni stakeholder cittadini (dal presidente degli industriali metalmeccanici Giorgio Marsiajal segretario della Compagnia di San Paolo Piero Gastaldo) chiamati domani a discuterne i risultati. Quella rotta tracciata vent’anni fa dal manipolo di intellettuali raccolti attorno alla figura del banchiere Enrico Salza che ha portato, tra le altre cose, a soccombere in maniera definitiva nella competizione con Milano. Non sfugge, ad esempio, che a dirigere il Centro Einaudi, promotore dello studio, sia Giuseppe Russo, coautore del famoso studio su “Mi.To” (Torino Milano 2010), puntello teorico alla ben nota operazione bancaria e base ideologica della coalizione che ha governato Palazzo civico.
“Il maggiore punto di forza – si legge nel Rapporto – è probabilmente dato da un apparato organizzativo efficiente e, soprattutto, dal virtuoso mix tra pubblico e privato sociale (forse il migliore tra le metropoli italiane), in perfetta linea di continuità con la storia torinese”. Tuttavia “ci si chiede fino a quando potrà reggere tale modello, visto che diversi scricchiolii sono avvertibili: il welfare pubblico pare allo stremo e quello privato fatica, anche psicologicamente”. Prospettive non rasserenanti per i giovani, in una delle metropoli più anziane: “Torino era e rimane meno istruita di molte altre grandi città, patisce un’elevata dispersione scolastica, registra una qualità non eccelsa della preparazione, conta relativamente pochi laureati e di questi un certo numero (i migliori?) va poi a lavorare altrove” certifica lo studio.
È arrivato il momento di “cominciare a ragionare sulle cause” di ciò che non va e non è andato nelle direzione giusta: “probabilmente, qualcosa negli ultimi decenni non ha funzionato nel ricambio generazionale tra imprenditori privati, in particolare nel settore dei servizi. Infatti, se l’industria si è molto ridimensionata, ma quel che è sopravvissuto pur con fatica pare per ora reggere, il vero punto di debolezza competitiva è costituito, e non da oggi, dal terziario privato. In questo senso, dunque, anche la scommessa dell’«Industria 4.0» andrebbe magari giocata non solo nelle fabbriche, ma, specialmente a Torino, anche negli uffici delle aziende terziarie”. Quel che non è scritto nel Rapporto, ma risulta ben chiaro anche a un osservatore distratto è quell’approccio irresponsabile che la classe dirigente ha mostrato, soprattutto, nei momenti cruciali per il cambiamento della città, incominciando dall’abbandono di Fiat, di fatto subito con scarse reazioni e decisioni. La stessa classe dirigente ha spesso assolto la funzione di ammortizzatore sociale di lusso per esuberi altrettanto dorati dalla galassia della Famiglia Agnelli. Alla quale si sono risolti anche non pochi problemi, per esempio in merito alle aree dismesse. Questi stavano chiudendo baracca e burattini per trasferire cervello e portafoglio altrove e “noi” abbiamo assunto i loro manager rottamati e tolto dal groppone mezza Mirafiori. “A gratis”, come dicono i piemontesi.
Inoltre quel ricambio generazionale che il Rapporto Rota sottolinea non sempre virtuoso nel mondo dell’impresa finisce anch’esso per confermare un’immagine ormai consolidata: quella di una gran parte di aziende che al passaggio generazionale o sono state cedute, spesso a gruppi stranieri, o hanno imboccato la rapida via del fallimento. E anche in questo caso la città, intesa come entità amministrativa allargata fino alla Regione, si è mostrata assai generosa, nominando ex imprenditori senza impresa o i loro rampolli ai vertici di società pubbliche. Questi hanno messo in berta i soldi di famiglia – chiedere all’Ersel di Giubergia – dedicandosi a far fruttare l’eredità e “noi” gli paghiamo la mesata.
E ci stupiamo di quello scenario che disegna Torino “per valore aggiunto prodotto penultima nel Centro-Nord”? Noi no. In fondo, “ciò già lo so” è l’anagramma di sociologia. E nonostante “da tempo e da più parti si sottolinei la necessità di una robusta reindustrializzazione dell’area torinese, il rilievo della manifattura nella produzione di ricchezza continua, in verità, a declinare”. Che fare? L’interrogativo leninista suona sempre più come un imperativo per la città che oggi si divide, tra applausi e critiche (pur di fatto sempre limitati al solito Barnum), davanti alla sindaca che puntando l’indice accusatore verso i suoi predecessori guarda il suo dito che tocca il debito ereditato, senza arrivare a mostrare quel che c’è dietro: un bicchiere mezzo vuoto. E, soprattutto, spiegare come lei intende riempirlo.



