Perché la globalizzazione è in crisi e i tre scenari possibili
Riportiamo l’articolo, a firma di Andrea Franceschi, pubblicato su “Il Sole 24 Ore” il 24 gennaio 2017
Uno dei primi atti firmati dal neo presidente americano Donald Trump è stata la firma di un ordine esecutivo per fare uscire gli Stati Uniti dal Trans-Pacific Partnership . L’accordo commerciale che coinvolge 12 economie tra le due sponde del Pacifico. Anche l’accordo di libero scambio Nafta che coinvolge Stati Uniti, Canada e Messico sarà oggetto di rinegoziazione nelle prossime settimane.
Il nuovo inquilino della Casa Bianca, che nel suo discorso di insediamento ha detto espressamente che il criterio ispiratore della sua amministrazione sarà quello di mettere al primo posto gli interessi degli Stati Uniti, ha improntato la sua campagna elettorale sul rifiuto della globalizzazione nel momento in cui questa globalizzazione si traduce in delocalizzazione della forza lavoro ad esempio. Trump ha detto chiaramente che la sua intenzione è quella di premiare le aziende che producono negli Stati Uniti e che reimpatriano i capitali.
Si può discutere se queste scelte siano giuste o sbagliate. Se siano efficaci o meno nel conseguire l’obiettivo preposto. Se questo ritorno del protezionismo possa scatenare guerre commerciali dagli effetti imprevedibili. Una cosa tuttavia è sotto gli occhi di tutti: se questo sarà il trend dominante nei prossimi anni la globalizzazione, così come la abbiamo conosciuta finora, è destinata a cambiare faccia e questo processo potrebbe avere conseguenze importanti negli anni a venire.
Questo tema è stato oggetto di un corposo report realizzato da Credit Suisse. Secondo gli analisti della banca svizzera l’economia mondiale ha sperimentato nella sua storia due importanti ondate di globalizzazione. La prima c’è stata tra il 1870 e il 1913 quando la rivoluzione industriale si è andata accompagnando alla forte crescita del commercio globale in seguito all’apertura del canale di Suez (1869). Questa prima fase ha subito una battuta d’arresto con la prima Guerra mondiale. La seconda grande fase di globalizzazione ha avuto luogo con la caduta del mondo di Berlino (1989), la fine della Guerra fredda, il processo di integrazione europea e l’affermazione della Cina come potenza economica e commerciale.
Questa seconda ondata di globalizzazione – si legge nel report di Credit Suisse – ha subito una battuta d’arresto con la grande crisi finanziaria del 2008/2009. Un evento traumatico che ha causato un brusco stop alla crescita del commercio globale. Fino ad allora in crescita inarrestabile. Una serie di indicatori (come i flussi commerciali, finanziari e di persone) ci dicono che, nonostante la globalizzazione si sia ripresa dal trauma della crisi, il ritmo di crescita è ancora lontano dai livelli pre-crisi. «L’impressione è che il processo sia arrivato a saturazione e che non ci sia il potenziale per crescere ancora» scrivono gli analisti di Credit Suisse.
In questo contesto il dibattito non è più incentrato su come far sì che la globalizzazione torni a crescere ma come fare in modo che la fetta destinata al mio Paese sia più grande e gustosa. In questo contesto si inquadra bene la «guerra valutaria» non dichiarata che le maggiori banche centrali in tutto il mondo hanno condotto in questi anni con manovre espansive che di fatto hanno dato luogo a «svalutazioni competitive». Altre forme non dichiarate di competizione – si legge nel report – sono quelle che hanno portato Stati Uniti e Unione europea a comminare multe incrociate a multinazionali europee e ameicani (Deutsche Bank e Volkswagen negli Usa, Google ed Apple in Europa).
Ma il colpo di grazia è arrivato lo scorso anno con il referendum sulla Brexit e la vittoria di Trump alle presidenziali americane. Due eventi politici totalmente inattesi che sono molto simili nelle loro ragioni scatenanti che, semplificando, hanno come minimo comun denominatore il rifiuto del mondo esterno. Un mondo esterno che ha varie forme: un’istituzione burocratica e lontana dalla vita della gente comune (la Ue per gli elettori britannici che hanno scelto la Brexit), l’immigrato clandestino o l’azienda che delocalizza la produzione per l’elettore medio di Trump.
Che cosa succederà ora? «Gli scenari possibili sono tre. Quello meno probabile è che la globalizzazione continuerà ad esistere senza sostanziali modifiche ancora a lungo. Quello meno desiderabile è che si assista ad un collasso del commercio globale a seguito di un’ondata di protezionismo, a una guerra commerciale e valutaria. Una brusca fine della globalizzazione che potrebbe essere favorita da eventi shock come un aumento delle tensioni geopolitiche a livello mondiale. Di fatto la riproposizione del copione del 1913 che ha preceduto la prima guerra mondiale».
Tra le due ipotesi estreme tuttavia sarà un terzo scenario a prevalere secondo gli analisti della banca svizzera. Cioè un’evoluzione dell’economia in senso «multipolare» con tre grandi mercati di riferimento: le Americhe, l’Europa e l’Asia. Questo processo dovrebbe portare gradualmente alla fine delle istituzioni globali come la Banca mondiale e il Wto, soppiantate da organismi sempre più regionali. Allo stesso modo – si legge nel report – è probabile che si assista al declino delle multinazionali a cui, in questo scenario, faranno posto sempre più dei «campioni regionali». Ossia aziende leader di mercato a livello regionale. In questo contesto è probabile che il dollaro perda il suo ruolo di moneta di riserva globale soppiantata da valute di riferimento nelle singole aree di riferimento: nello specifico l’euro nel Vecchio Continente e lo yuan in Asia.



