“La Lega torni alle origini” Fronda nel nome di Bossi
Riportiamo l’articolo, a firma di Stefano Rizzi, pubblicato su “Lo Spiffero” il 13 febbraio 2017
Rispuntano le corna di bue sugli elmi, forse tra i più scenografici orpelli della simbologia filo-celtica che animava il Pratone di Pontida quando Bossi era “l’Umberto” e “la Lega era la Lega”, come ripetono quelli che la rimpiangono come un amore tradito. E così quegli elmi cornuti, finiti sul terreno di una battaglia intestina di cui si è patito la sconfitta, si affacciano dalla pagina di facebook con un significato altro rispetto all’originario. Meno storico, più prosaico, ma universale: l’emblema del tradimento subito. Non accettato, però. “Perché se torna Bossi, torniamo pure noi”. E in quel noi che Oreste “Tino” Rossi, fondatore da ragazzino del movimento che dal Piemonte, insieme alla Lombardia e al Veneto(sempre un po’ più autonomista, in verità) muoveva i primi passi che sarebbero stati poi fragorosi all’affacciarsi degli anni Novanta con un successo elettorale che porterà lo stesso Rossi in Parlamento per la prima volta nel ’92, in quel “noi” l’ex parlamentare (tre volte a Montecitorio e una a Strasburgo) c’è la Lega di ieri a cui non piace quella di oggi e che ne sogna una diversa per domani.
Gente che è scesa dal Carroccio quando son spuntate le ramazze di Roberto Maroni, oltraggio all’Umberto, che avrebbero spazzato la strada per Matteo Salvini. Ma anche gente, anzi popolo – termine scritto in verde nel vocabolario delle origini – che sul Carroccio è rimasto, ma il viaggio indicato da Matteo – sempre più sul ciglio destro, sempre più verso la Francia di Marine Le Pen – è una gita pressoché forzata, per nulla agognata. “In meno di una settimana, da quando abbiamo aperto le iscrizioni, attraverso la pagina facebook, agli “Amici di Umberto Bossi” siamo già più di quattrocento. Una buona metà sono militanti, gli altri lo sono stati e sono pronti a tornare ad esserlo se cambierà qualcosa”. Non un album dei ricordi, un cassetto virtuale di memorabilia: le foto di tanti di loro con il Senatur assai più giovane, ma anche scatti recenti, gli Alberto da Giussano che si stagliano su drappi verdi e le ampolle del dio Po, sono al pari degli elmi cornuti simboli che pur non tradendo il loro senso originario, esprimono anche altro: la voglia di cambiare.
Un ritorno al passato che non è nostalgia di un luogo, ma desiderio di una strada diversa da quella attuale. Federalismo, autonomia e per chi osa di più uno sbotto, provocatorio come sapeva fare l’Umberto, di secessiun, tornano ad essere parole d’ordine da opporre, se possibile sostituire in fretta, agli insopportabili abbracci con il Front National e agli imbarazzanti saluti romani che spuntano dalle parti di Casa Pound.
Spuntano, tra gli amici dell’Umberto nomi che hanno segnato un’epoca, assai lunga, della Lega in Piemonte. C’è Matteo Brigandì, “l’avvocato del Carroccio” che esorta a “unirci e uniti pronti a lottare con lui”, dove lui è Lui ovvero il Bossi. C’è la storica militante tuttora iscritta Daniela Cantamessa che ricorda “quella dirigenza e quei militanti che gli hanno girato la schiena al congresso del 2013” e non è un bel ricordo. C’è l’ex sindaco di Acqui Terme Dino Bosio, pronto a ricandidarsi alla guida della città che tenne a battesimo la devolution in un teatro Ariston straboccante dove parlava il Senatur, e che oggi dopo anni senza tessera chiede all’unico capo riconosciuto di “concretizzare l’ala federalista, indipendentista e secessionista della Lega, non contro ma per rispondere, e nel tempo diventare maggioritaria rispetto a Lega Italia Sovrana”, insomma quella di Salvini.
Tra vecchi manifesti contro il tricolore s’affaccia lo spettro del tricolore che Salvini parrebbe voler infilare nel simbolo, anche se sono poi piovute smentite. Intanto si era scatenato l’uragano, tra i lumbard delle origini. Da queste parti l’aria che tira, da respirare a pieni polmoni, è il vento del Nord. Le canzoni, quelle dell’indimenticato Gipo Farassino, chansonnier di ringhiera arrivato a governare per un po’ il Carroccio in Piemonte e pure ad occupare uno scranno nel Parlamento Europeo. La veemenza, quella di Mario Borghezio che per anni invece di pronto, al telefono ha risposto Padania libera, anche oggi l’europarlamentare è assai più allineato e da tempo l’uomo di collegamento con una certa destra che alla vecchia guardia non piace.
Una Lega dentro e fuori la Lega di Salvini. Quella dentro, giusto un anno fa, ha cercato di vendere cara la pelle: c’era da fare il congresso, l’ala bossiana schierava la consigliera regionale Gianna Gancia, Salvini il suo braccio destro in via Bellerio, l’alessandrino Riccardo Molinari. L’avrebbe spuntata quest’ultimo, ma le beghe, i rinvii, gli sgambetti ancora se li ricordano di quelle settimane che avvicinavano un San Valentino che tutto vide e fece vedere fuorché leghisti piemontesi innamorati. La Gancia rappresentava e rappresenta quel Carroccio che sta su posizioni politiche diametralmente opposte a quelle del felpetta: lei, lady Calderoli, è contraria alla svolta nazionale, all’apertura al Sud e alle alleanze con i movimenti di estrema destra.
Si ricordano frasi attribuite a Salvini: “Il Piemonte deve scegliere tra me e la Gancia”, “Non puoi fare il capogruppo alla Regione e il segretario regionale”, “Sei la moglie di Calderoli e dunque non puoi fare il capo del Piemonte”. Più che la festa degli innamorati a qualcuno parve la notte di Chicago del ’29. È passato giusto un anno e lo scorno continua con espulsioni denunciate dagli sconfitti al congresso qua e là nella regione che la Lega riuscirà a governare con un suo uomo, ma finendo male. Anche la foto dell’ex governatore decaduto Roberto Cota, mentre regge il posacenere a Bossi finirà guardata di traverso dagli stessi fedelissimi del capo. Le sue intemerate, sempre più frequenti in questo periodo, nei confronti del segretario sono musica per le orecchie di chi spera e crede in un segno, sì “perché basta un cenno dell’Umberto e noi ci siamo”, per imboccare la strada del cambiamento. Del ritorno alle origini, spazzando via quella grandeur sognata da Salvini ma appesa al filo del risultato delle elezioni francesi più che ad ogni altra cosa. “Se la Le Pen perde per lui è finita” dice chi non lo ama. L’annuncio della leader della destra populista d’Oltralpe di voler negare la possibilità di mantenere il passaporto israeliano agli ebrei francesi ha suscitato un’ondata di disgusto e preoccupazione nella Lega, autonomista sì, magari anche un po’ secessionista, ma in cui questa roba viene letta con il brivido lungo la schiena.
“Noi siamo un’altra cosa” dicono gli amici di Bossi “un uomo – come scrivono nella loro pagina facebook – che ha cambiato la politica italiana. Ha creato un movimento che ha portato all’attenzione del Paese delle criticità tenute nascoste. Ha saputo mantenere la calma quando una scintilla poteva provocare una guerra civile”. Loro cono con lui. Lui sarà con loro, leghisti ed ex pronti ad un suo cenno a tornare, già nei prossimi giorni e proprio in Piemonte. Giovedì a Castagneto Po “saremo in tanti, tantissimi”. Un cena, “Umberto mi ha assicurato che verrà – dice Rossi – e ne faremo altri di incontri. Noi siamo pronti, basta che lui faccia un cenno”. Gli elmi con i con le corna di bue rimarranno forse e per sempre appesi al muro, ma il ristorante scelto per l’adunata di quella sorta di Odessa dei leghisti traditi sparsi per il Nord si chiama “L’assedio”.



