Appendino fa rima con declino
Riportiamo l’articolo, a firma di Oscar Serra, pubblicato su “Lo Spiffero” il 19 novembre 2017
La mancanza di una “visione” e di “una narrazione capace di coinvolgere la città attorno a un grande progetto” come fu per gli anni olimpici; ma anche l’“assenza di dialogo e confronto” sono solo alcune delle principali critiche a Chiara Appendino, che risuonano ormai sempre più insistenti come un lamentoso refrain. L’incedere lento di una Torino in crisi d’identità non pare essere stato folgorato da un nuovo slancio in questo primo anno e mezzo a trazione grillina. E a rilevarlo non sono più solo le opposizioni in Sala Rossa, ma settori sempre più ampi della città: commercianti, artigiani, costruttori; il cuore pulsante di un’economia allo stremo.
In città si respira un’aria dimessa, di estenuante indeterminatezza, nella vana attesa di quel che sarà mentre pesa quel che, ancora, Torino non è. Di certo il capoluogo piemontese è una delle città più vecchie d’Italia con un’età media oltre i 46 anni, di un punto e mezzo superiore a quella italiana. Una popolazione anziana e con poca voglia di mettersi in gioco, come emerge dalle statistiche sulla natimortalità delle imprese, rese note da Unioncamere, con una differenza tra nuove aperture e cessazioni negativa di 0,2 punti percentuali. Numeri che tratteggiano un generale clima di sfiducia, spesso presagio di declino. Serve una scossa, “si faccia qualcosa – è il grido d’allarme del presidente di Confartigianato Dino De Santis – perché stare fermi è ancor peggio che sbagliare”. Pesa una situazione delle casse pubbliche, a Palazzo Civico come in piazza Castello, ma anche la “mancanza di una visione o un progetto su cui coinvolgere la città” per dirla con le parole di Giancarlo Banchieri, numero uno di Confesercenti. La piccola impresa, croce e delizia di un tessuto imprenditoriale fragile, è quella che fatica di più a intercettare la ripresa, per via di una debolezza congenita ma anche per “l’assenza di un percorso collettivo sul quale identificarsi, una strada da percorrere insieme” prosegue Banchieri.
Pare essersi spenta quella fiamma di entusiasmo che aveva accolto il cambio di amministrazione in via Milano, con l’approdo di Appendino. E se, da una parte, gli endemici deficit di Torino non sono certo ascrivibili alla giovane sindaca pentastellata, allo stesso tempo in questi primi 500 giorni non si può dire che i nuovi inquilini di Palazzo di Città abbiano saputo imprimere una svolta, un nuovo inizio. L’azione amministrativa e politica è caratterizzata da continui stop and go: al di là delle tante inversioni a “U” – Città della Salute, area ex Westinghouse, Metro 2, i centri commerciali, solo per citare i più noti – c’è la sensazione di un vertice incapace di individuare nuove strade di sviluppo ed è quasi in imbarazzo nel rivendicare le (tante) scelte adottate in continuità con chi c’era prima. Si è arrivati al punto di offrire giustificazioni spesso grottesche come quella fornita dal vicesindaco Guido Montanari per giustificare il proliferare di nuovi permessi edificatori per la grande distribuzione, arrivando a teorizzare una guerra tra centri commerciali vecchi e nuovi che rafforzerà il commercio di vicinato. Dichiarazioni “incommentabili” per Banchieri, di Confesercenti. E l’indagine della Cgia di Mestre, evocata a ogni piè spinto dall’Appendino candidata a sindaco, secondo cui ogni posto di lavoro nei supermercati equivale alla perdita di sei posti nel piccolo commercio?
Sfiducia e disorientamento sono le parole adottate da chi è stato protagonista dell’ultima stagione di sviluppo della Torino olimpica, una crescita che poggiava sulla leva urbanistica, la riqualificazione della città attraverso la realizzazione di infrastrutture collegate alla rigenerazione di interi quartieri. “Serve ritrovare una identità economica – afferma Marco Razzetti, presidente dell’Aniem, l’associazione delle imprese edili e manifatturiere, quelle che più di tutte hanno subito le ingiurie della crisi e ancora faticano a rialzarsi -. Oggi l’amministrazione non manifesta la propria idea. Da tempo chiediamo un tavolo per essere ascoltati, per proporre le nostre idee di partenariato tra pubblico e privato per ridare slancio all’economia, ma non veniamo ascoltati”. Di più, “abbiamo la percezione di essere visti come il male, l’emblema di quei poteri forti che fanno soldi con il cemento”.
Resta sullo sfondo, ma pronto a deflagrare, il conflitto tra una base ortodossa, rappresentata in aula da un’ampia pattuglia di consiglieri e la realpolitik imposta dalle quotidiane difficoltà di amministrare la cosa pubblica. La fatica giornaliera della sindaca di dover giustificare alla sua stessa maggioranza – prima ancora che all’opinione pubblica – scelte necessarie quanto indigeste.
“Al di là dei dati macroeconomici che pure evidenziano qualche flebile segnale di ripresa è necessario ricreare quell’entusiasmo e quella voglia di rimboccarsi le maniche necessarie per risollevarci tutti insieme” dice ancora Banchieri. Un clima favorevole che “tutti abbiamo la responsabilità di ricreare, ma dobbiamo capire su quali basi”. Una difficoltà di dialogo e proposta che, secondo alcuni, non è circoscritta alla maggioranza grillina: “Ci aspettavamo qualcosa di più dall’amministrazione, ma al tempo stesso abbiamo atteso invano una risposta anche dalla parte sconfitta, dove volevamo vedere una reazione che non si è vista – afferma il numero uno degli artigiani torinesi –. Tutta la politica sembra agire in uno stato di grande autoreferenzialità”. De Santis chiede nuovi investimenti e opportunità di lavoro per le piccole imprese del territorio, senza veti ideologici. La disillusione della categoria è emersa anche in un recente sondaggio promosso da Confartigianato tra i suoi iscritti, in cui il 58 per cento degli intervistati boccia l’attività della sindaca nel suo primo anno di amministrazione.
“L’aspetto più angosciante è che da trent’anni parliamo degli stessi deficit ormai insiti nel sistema economico cittadino senza essere mai riusciti a risolverli” afferma il professor Luca Davico, sociologo e tra gli autori del Rapporto Rota. “È dagli anni Ottanta, per esempio, che si parla di un terziario debole e malconcio, ma allora c’era l’industria a sopperire, mentre oggi ci rimangono le nostre debolezze”. Anche quelle che abbiamo provato a nascondere con una retorica trita e ritrita “a partire dall’eccellenza della nostra formazione, che in realtà eccellente non è come dimostrano i dati sulla dispersione scolastica, alle grandi infrastrutture che ci relegano a periferia d’Italia, laddove l’alta velocità non passa, ma si ferma”. Pur riconoscendo i limiti di un’amministrazione che stenta a spiccare il volo, Davico punta il dito su un sistema torinese da sempre fermo: “Ci sono altri attori da cui ci si aspetterebbe di più, a partire dagli industriali, infatuati per la Tav ma che sembrano non essersi accorti della dismissione della linea tirrenica con cui Torino era collegata a Genova, Firenze e Roma”. Ma anche l’Università, il Politecnico, il sistema del credito: “Tutti hanno il loro pezzo di responsabilità”.



