Ipoteca gialloverde sul Piemonte: sacrificare la Tav per la Regione
Riportiamo l’articolo pubblicato su “Lo Spiffero” il 4 giugno 2018
Non sarà certo la Tav a fermare il tracciato gialloverde per arrivare dritti insieme, Lega e Cinquestelle, a governare il Piemonte. Ieri Matteo Salvini ha detto che “La Pedemontana non si tocca, né la veneta né la lombarda, né altre grandi infrastrutture come il Terzo valico”, però poi ha aggiunto: “Ci hanno chiesto di riesaminare la sostenibilità economica della Tav al tavolo con i francesi e quello può avere un senso”. Eccome se ce l’ha, un senso. Ai lumbard, del resto, della Torino-Lione importa un fico secco, anzi a dirla tutta l’hanno sempre guardata con sospetto visto che quel corridoio ferroviario non solo li esclude ma, a regime, ridimensionerebbe il peso degli attuali collegamenti transfrontalieri.
Una scala di priorità, quella declinata dal leader leghista e vicepremier, che verrà ulteriormente rafforzata dalla nomina a viceministro a Trasporti e Infrastrutture (o al Mise dove ci sono i cordoni della borsa) del ligure Edoardo Rixi, un mastino a difesa del Terzo Valico, pietra di volta della giunta regionale presieduta dall’azzurro (più vicino al Carroccio) Giovanni Toti. Un presidio per quelle opere che Lombardia e Veneto giudicano intoccabili e che, quindi, come ha garantito lo stesso Salvini, “devono andare avanti”.
Non così per la Tav. E non solo per questioni di campanile. Nei ragionamenti del vertice leghista la Torino-Lione non può diventare un ostacolo ai piani di un governo gialloverde del Piemonte. Perciò tergiversare sulle procedure e riesaminare le intese con i cugini d’Oltralpe, allungando il confronto alla bisogna, consentirà di togliere dal cammino verso piazza Castello un macigno, consentendo la riproposizione in chiave locale del “contratto di governo” che ha portato i due contraenti nelle stanze di Palazzo Chigi.
Insomma, una manciata di giorni dopo la realizzazione di quello che secondo molti era un disegno nei cassetti delle due forze politiche fin dal 5 marzo (o forse anche prima), la proiezione in scala regionale – proprio sull’ultima regione del Nord ancora in mano al centrosinistra e il cui capoluogo è uno dei simboli della conquista grillina – è più di un’eventualità. I presupposti ci sono tutti.
L’esecutivo Conte è, negli auspici dei soci di maggioranza, così come nei numeri parlamentari, di legislatura. Se non avesse avuto la certezza di una prospettiva lunga, come osservano nello stato maggiore leghista, Salvini non si sarebbe mai imbarcato in questa alleanza, tanto più avendo come alternativa un voto anticipato che lo avrebbe portato a crescere ancora e molto. Poi c’è il Quirinale, non inteso come Sergio Mattarella, ma come il suo successore che nel 2022 sarà eletto da questo Parlamento. “Mi candido a Presidente della Repubblica” ha detto Beppe Grillo, festeggiando la vittoria. Una battuta, forse. Di certo l’asse gialloverde vuole rimanere saldo anche per questa ragione. E, con Forza Italia sempre più marginalizzata in un centrodestra che, come sancito da Giorgia Meloni, ormai non esiste più, quello che fino a poco tempo fa sarebbe parsa fantapolitica, descrive invece un futuro più certo che probabile.
“Lo schema è cambiato, le differenze sono più quelle basate sulle storiche famiglie politiche europee, peraltro in fortissima crisi. La differenza oggi è tra chi rappresenta il popolo e chi l’establishment” spiega Riccardo Molinari, segretario piemontese della Lega e probabile presidente del gruppo alla Camera. Parole che già indicano con nettezza quale potrà essere a breve la risposta definitiva allo stanco refrain berlusconiano del “centrodestra unito”. E, ancor più, quale sarà la strada che Salvini deciderà di imboccare per continuare a governare il Nord, incominciando a cambiare alleato proprio laddove i grillini hanno spodestato il Pd in Comune e lui non vede l’ora di farlo in Regione. Il candidato presidente non sarà un problema. Non solo perché, come raccontano con compiacimento i Matteo Boys appena arrivati in Parlamento, “in questi giorni si sono fatti avanti molti nuovi amici”, confermando la massima di Flaiano sulla corsa in soccorso al vincitore, ma anche perché in fondo basterebbe un Conte qualsiasi in piazza Castello (del resto un marchese già amministra Alessandria). A governare ci penserebbero i vertici dei due partiti. Nulla da inventare, solo copiare quel che è stato appena fatto.
Sulla carta, un piano perfetto. C’è tuttavia una variante: alle regionali viene eletto presidente chi prende più voti e non si può far conto su consultazioni, tiramolla, bizantinismi vari e altro ancora. Quindi l’incognita resta sui tempi dell’alleanza: prima del voto con un candidato unico condiviso o dopo, quando per far correre una probabile anatra zoppa, uno dei due partiti appoggerà l’altro? “Se l’esperienza del Governo, come sono convinto, funzionerà, vedo difficile darsi addosso in Piemonte?” ammette Molinari, confermando di fatto quello che è uno scenario ormai chiaro. Forse anche agli occhi di chi non può o non vuole ammetterlo: Forza Italia perseguendo il mantra del centrodestra unito, rischia di arrivare fuori tempo massimo ad assumere, partendo dal Piemonte, una posizione diversa con l’ormai ex alleato. È vero che nel Nord l’alleanza del centrodestra tiene, ma cosa accadrà – regnante il Governo gialloverde – quando si tratterà di tornare alle urne? La prima risposta arriverà proprio dal Piemonte, tra meno di un anno. Anzi assai prima, visto che le carte dovranno essere scoperte in tempo per la campagna elettorale.



