Salone del Libro di Torino: Un successo di pubblico, ma quali novita?
Riceviamo in Redazione e riportiamo la newsletter 23-2017 di Alpina-Dialexis, a cura di Riccardo Lala, del 25 maggio 2017
L’idea dell’ AIE, di trasferire il Salone italiano del libro da Torino a Milano, è miseramente fallita. Le cifre degli editori e dei visitatori parlano chiaro. Tuttavia, la mancanza di fantasia che ha caratterizzato il nuovo salone di Milano non ha risparmiato neppure quello di Torino, pur “vincitore” dal punto di vista commerciale, politico ed organizzativo.
Anche Torino è stata sostanzialmente un rifacimento senza innovazioni delle edizioni precedenti. Nessun rimedio ai difetti tradizionali: ripetizione all’ infinito dei temi cari all’ “establishment”, nessuna internazionalità, né europeità, massificazione sempre più asfissiante, senza pensare neppure a un minimo di “confort” per i visitatori. Basti pensare che, con l’eliminazione dell’ Oval e l’aumento dei visitatori, il confronto con la relativa calma di Milano diventa, sotto questo punto di vista, stridente.
Anche se quest’anno non abbiamo partecipato, né come espositori, né all’ IBF, abbiamo, come tutti gli anni, frequentato assiduamente le manifestazioni degli altri editori, e abbiamo così dovuto constatare il costante allontanarsi della pubblicistica professionale dall’interesse per i temi più scottanti.
A nostro avviso, una cosa è evidente. A mano a mano che una parte degli Autori si avvicina alle questioni di maggiore attualità, subentrano forme di censura o di autocensura, che non permettono mai di porre all’ ordine del giorno i temi che veramente lo meriterebbero.
1.”Oltre il confine”.
I temi imposti dall’organizzazione del Salone agli espositori per ciascun’edizione , per quanto spesso attuali e provocatori, non sono mai stati rispettati. Quello di quest’anno, per quanto tutt’altro che originale (ripreso di pari passo dal titolo dell’ omonimo libro di Bruno Luverà), sarebbe stato bellissimo ed attualissimo se soltanto qualcuno avesse provato a prenderlo sul serio. A cominciare dalla tematica dell’ Euro-regionalismo, oggetto, appunto, dell’ opera, ormai classica, di Luverà.
Ma, soprattutto, è vergognoso che si continui ad autodefinirci “Salone Internazionale del Libro” quando tutti gli aspetti d’internazionalità sono stati cancellati, e non si è neppure accolta la proposta, fatta da noi con altri editori, di invitare l’ Unione Europea come ospite d’onore.
Si sarebbero potuti sviluppare infiniti sottotemi: il sublime (al di là del confine della quotidiana banalità), la “provincializzazione dell’ Europa” (al di là dei limiti dell’ Occidentalismo), l’immigrazione e l’emigrazione (al di là del mito della “fine della storia”), l’euro-regionalismo (al di là dei limiti dei cosiddetti “Stati Nazionali”).Tuttavia, ben poco di tutto ciò è stato fatto. Forse l’unica iniziativa pregevole sotto questo punto di vista è stata la manifestazione letteraria costruita intorno alla TAV, nella quale ci si è finalmente ricordati dell’identità delle Alpi Occidentali, alla quale tanta attenzione hanno dedicato Alpina e Diàlexis, le quali avevano anche pubblicato, nel 2012, con il sostegno finanziario della Regione Piemonte, il libro “Intorno alle Alpi Occidentali, Identità di un’ Euroregione”(cfr. http://www.alpinasrl.com).
Paradossalmente, questo avrebbe dovuto essere il tema centrale, anche in considerazione del fatto che è stata appena varata la Strategia Macroregionale Alpina. Se l’Unione Europea non propaganda neppure le proprie iniziative, come si può pretendere che i cittadini s’interessino dell’ Europa?
Nessuna manifestazione è stata invece dedicata alla Nuova Via della Seta , tema in cui, dopo le visite in Cina del Presidente Mattarella e del Primo Ministro Gentiloni, tutto il Sistema Italia è particolarmente coinvolto.Per quanto ci concerne, abbiamo appena pubblicato, e presenteremo il 29 maggio, presso il Centro Studi San Carlo, il volume di Riccardo Lala “Da Qin, Un’Europa sovrana in un mondo multipolare”
2.La delusione della rete
Il vero tema di questa manifestazione è stato in realtà la “Net Delusion”, per citare un celebre titolo di Evgeny Morozov. In effetti, i molti autori specialisti del web, i quali, una ventina di anni fa, avevano annunziato che le nuove tecnologie avrebbero risolto tutti i problemi con cui l’Umanità si era scontrata da millenni, e che, in particolare, Internet avrebbe permettere di realizzare una forma perfetta di democrazia, sono stati clamorosamente smentiti dalle Primavere Arabe, dalla Sorveglianza di Massa, dalla disoccupazione tecnologica e dall’ Intelligenza Artificiale.
Le promesse del “Sublime Tecnologico” erano, in realtà, una “pia illusione”. Proprio quei personaggi ch’erano stati i cantori della “Religione del Web”, come lo stesso Roberto Casaleggio, ne sono divenuti, poi, dei severi critici. Un esempio tipico è costituito appunto dal video postumo postato dal figlio Davide Casaleggio sul sito dell’ impresa familiare, in cui il compianto informatico e politico ammoniva sui pericoli dell’ informatizzazione forzata.
Al Salone, abbiamo potuto apprezzare una serie di interventi su questo tema, nelle sue tre varianti: gli abusi da parte delle “Over the Top” (Google, Facebook, Amazon, Apple,Microsoft) , le “Fake News” e l’ “Hair Trigger Alert”. Quanto al primo tema, l’intervento più “centrato” ci è sembrato quello di Evgeny Morozov, da noi sempre seguito con attenzione che è andato avanti, rispetto a quanto illustrato nel libro “Silicon Valley: i signori del silicio” e, qualche mese fa, a “Biennale Democrazia”, nella direzione di una vera e propria “teoria generale” dell’economia digitale, che parte da idee storiche intorno a feudalesimo, capitalismo e socialismo, estrapolate dalla tradizione della “scuola critica”, passa attraverso un’analisi storica del “Complesso Informatico Militare”, per poi prendere atto, da un lato, della totale dipendenza digitale dell’ Europa dagli Stati Uniti, e, dall’ altro, della conseguita autonomia della Cina. Infine, Morozov insiste sulle conseguenze economiche della dipendenza economica dalle Over the Top, che giungono ad assoggettare ad un vero sistema tributario l’insieme delle attività sociali aventi un risvolto economico, le quali vengono “delegate” alle multinazionali stesse, che, forti del controllo dei “Big Data”, possono svolgere le funzioni pubbliche molto più efficacemente dei governi, imponendo così una sorta di balzello su qualunque attività umana.
Come esempio tipico di quest’ ”economia neo-feudale”, Morozov cita il sistema sanitario inglese, il quale, avendo perduto il ruolo e le competenze che gli permettevano di gestire in modo razionale l’insieme dei fabbisogni dei cittadini, è costretto a delegare alle “Over the Top” l’aspetto conoscitivo, come precondizione per proporre, ed imporre, addirittura, al Governo, l’outsourcing del servizio sanitario, da gestirsi attraverso una delle “spin-offs” controllate da Google.
A noi pare che quest’analisi, da parte di Morozov, delle prospettive dell’ economia digitale rappresenti forse la più avanzata disponibile su piazza. Tuttavia,anch’essa si arresta (e, avremmo voglia di dire, forse deliberatamente) “ad un passo” dal momento propositivo. Infatti, lo svuotamento, da parte dell’economia del web, attraverso meccanismi di questo tipo, di ogni forma di economia attualmente esistente, grazie alla sostituzione del lavoro delle macchine a quello dell’ uomo e all’ incameramento, da parte delle multinazionali, di corrispondenti canoni, non potrà non scontrarsi con una formidabile contraddizione: a un certo punto, gli utenti non saranno più in grado di pagare il canone. Si ha un bel dire che il denaro per pagare i canoni proverrà dal “reddito di cittadinanza”, che, a sua volta, sarà finanziato dall’imposizione fiscale sulle multinazionali dell’ informatica. Peccato che, già oggi, il potere fattuale di queste ultime sia già così grande che tutti i governi del mondo abbiano configurato da tempo, con un “conscio parallelismo”, un diritto fiscale internazionale così strutturato, che il genere di servizi tipico delle multinazionali del web si sottrae quasi integralmente alla tassazione, mentre quelli dei loro concorrenti europei sono soggetti a un carico fiscale che supera il 50% . In pratica, le “Over the Top” si situano già oggi negl’interstizi “vuoti” del sistema fiscale (paradisi fiscali, trattati contro le doppie imposizioni, tariffe agevolate, tax ruling, evasione,elusione, concordati…, ed aspirano per il futuro, attraverso meccanismi tecnologici, come piattaforme galleggianti, satelliti e palloni idrostatici, a liberarsi anche fisicamente dal controllo degli Stati. Le transazioni in corso di negoziazione fra le multinazionali e il fisco di buona parte dei Paesi costituisce, a nostro avviso, non già una smentita, bensì una conferma, della nostra tesi. Infatti, si tratta di importi modestissimi rispetto a quanto le multinazionali avrebbero dovuto pagare in tutti questi anni con l’applicazione dei criteri internazionali standard di tassazione, che non ristabiscono di certo, né un’equo equilibrio, né, tanto meno, adispetto delle pretese liberistiche dei Governi, condizioni di mercato sufficienti per la nascita di concorrenti.
A ciò si aggiunga che anche le altre Autorità competenti, da quelle antitrust a quelle sulla privacy, a quelle deputate al segreto militare, stanno tollerando, da parte delle multinazionali del web, comportamenti che non permetterebbero mai a nessun altro soggetto, né pubblico, né privato,né nazionale, né estero, e grazie ai quali esse stanno ancora accrescendo smisuratamente il proprio potere, tanto nei confronti degli Stati, quanto in quelli dei concorrenti. Le teorie esposte per giustificare questa inaudita tolleranza, vale a dire un eccezionale vabntaggio economico-sociale, raggiungibile solo in regime di monopolio, non è previsto in alcuna legislazione, ed è smentito dal fatto che, in Cina, dove le multinazionali non godono di tutti questi privilegi, esiste una ricca concorrenza di providers nazionali, come Baidoo, Weibo, Alibaba e Tencent.
Purtroppo, né Morozov, né nessun altro, hanno incominciato ad anticipare veramente, il dibattito sulla questione logicamente successiva (e storicamente decisiva): come fare in modo che ciascuno trovi un proprio ruolo effettivo nella società automatizzata. Infatti, non tutti i “lavori” consistono nella “produzione” diretta di beni e servizi. Buona parte delle attività umane consistono nell’ ideare, nell’ organizzare, nel progettare, ecc.. Queste attività non debbono essere lasciate alle macchine, o lo possono solo in misura minima. Solo in tal modo gli “utenti” del sistema globale automatizzato continueranno ad avere un loro potere nei confronti delle macchine, una nuova forma di “ius activae civitatis”.Parleremo di questo con la Commissaria Europea Thiessen quando verrà a Torino l’8 giugno per illustrare gli allegati già pubblicati dalla Commissione al Libro Bianco.
3. Fake News e Post-verità
Un gran numero di manifestazioni è stato dedicato, nel Salone, a questo tema, per altro poco chiaro nella sua formulazione. Anche gl’interventi dei vari oratori in proposito sono stati altrettanto poco chiari e poco persuasivi.
L’affermazione più interessante e convincente venuta da Damilano, che ha riconosciuto francamente, che, alla base di tutto, c’è un’eccessivo conformismo dei giornalisti. In effetti, anche quest’esplodere della campagna sulle “fake news” proprio in connessione con sonore sconfitte (non solo elettorali) dell’ “establishment” (quando invece il problema delle “notizie false e tendenziose” è sempre esistito, ed è già stato variamente disciplinato per legge), dimostra che tutto questo baccano è dovuto ad un disegno dell’ “establishment” stesso, mirante a colpire l’uso del Web come strumento di critica.
Certo, alcuni, come è avvenuto nei dibattiti al Salone del Libro, allargano la domanda alla “questione della verità”. Anche qui, per altro, con sonori autogoal. E’ infatti assai singolare che l’”establishment” difenda il sistema politico occidentale per il fatto di non essere esso, diversamente, per esempio, dalla Chiesa cattolica o dagli Stati islamici, retto dal principio di Verità, e, poi, preoccuparsi tanto se vengono diffuse “notizie non vere”. Tanto più che, come osservava già l’ averroismo medievale, la distorsione della verità fa intrinsecamente parte della politica.
Quanto, poi, specificamente, al sistema culturale moderno, esso è fondato, come ormai tutti sanno, su “grandi narrazioni” costruite deliberatamente dalla cultura ufficiale, come quelle circa la superiorità dell’ Occidente, circa gli effetti taumaturgici della tecnica, circa la libertà di pensiero. Casi schiaccianti di “fake news” create dal Governo americano hanno permesso addirittura lo scatenamento di molte guerre degli Stati Uniti, da quella con la Spagna, alla Seconda Guerra Mondiale, alla seconda guerra in Irak. Il caso veramente paradigmatico è la messa in scena del Generale Powell dinanzi all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite circa l’uso di armi chimiche da parte dell’esercito di Saddam Hussein, poi rivelatosi uno sfacciato falso, ma che ha provocato 14 anni di guerra, centinaia di migliaia di morti, la nascita dell’ISIS e la condanna a morte dello stesso Saddam Hussein, mentre invece Bush e il Generale Powell non sono stati processati per tutti questi, che sono palesi crimini di guerra.
Qui, anziché introdurre nuove forme di censura dei mezzi d’informazione indipendenti, occorrerebbe invece demonopolizzare e e deconsolidare i media, e soprattutto il sistema informatico mondiale (un “order to divest”). Ma perfino la cultura accademica è corresponsabile del sistema globale di anti-informazione, e andrebbe resa molto più trasparente.
Quanto, nello specifico, al mondo filosofico, l’attacco, portato avanti da parte del cosiddetto “neo-realismo” contro il cosiddetto “relativismo” costituisce esso stesso una nuova forma di mistificazione. L’aforisma nietzscheano secondo cui “non esisterebbero fatti, ma solo interpretazioni”, non fa, in realtà, che prendere atto delle risultanze delle stesse scienze moderne, dalla linguistica alla fisica, che c’insegnano che la stessa affermazione di un’idea, ed ancor più l’osservazione scientifica di un fenomeno, modificano ineluttabilmente la realtà osservata o descritta. In queste condizioni, la Verità sta semmai nel “non nascondimento” (“a-letheia”) del processo conoscitivo.
4. L’eccezionale avventura di Stanislav Petrov
Di tutte le presentazioni di libri avvenute nell’ ambito del Salone, quella più convincente e “positiva” è stata quella del reportage giornalistico, tratto da quello televisivo, di Roberto Giacobbo e Valeria Botta, intitolato “L’uomo che fermò l’ Apocalisse”.
Abbiamo già parlato in altre newsletter del Tenente Colonnello Petrov, e del suo straordinario comportamento nel 1983, quando, responsabile della sorveglianza elettronico-missilistica sovietica, forzò il protocollo del sistema “OKO”, rifiutandosi di scatenare un attacco massiccio contro gli USA, come avrebbe imposto il sistema automatico, che, per un guasto, stava segnalando un attacco missilistico americano in corso.
Il reportage di Giacobbo e Botta, il documentario già presentato alla televisione all’ interno di Voyager, e anche l’intervento degli autori al Salone nello stand RAI, si distinguono, da un lato perché fanno capire che cosa sia lo “Hair Trigger Alert”, l’”allerta appesa a un filo”- cioè il sistema di sorveglianza e scatenamento elettronica della guerra nucleare, un sistema che, semmai permette un ripensamento (da parte del Presidente della Repubblica), lo permette per un periodo massimo di 30 minuti- e, dall’ altro, la grandezza etica di Stanislav Petrov.
Gli autori sottolineano il loro stupore per il fatto che tanta indipendenza di giudizio e tanto coraggio civile si trovassero in un ufficiale dell’arma missilistica sovietica. A noi sembra, al contrario, che queste qualità siano un retaggio tipico di tutte le ufficialità vecchio stile, abituate ad un senso eroico del dovere e al culto del decisionismo e della logica. L’Armata Rossa, nonostante le sue pretese rivoluzionarie, era stato un potente incubatore dei valori etici degli antichi ceti militari.
Petrov considera del tutto normale normale ciò che ha fatto, perché quello era il suo mestiere, e afferma, addirittura, di avere sempre criticato i vertici militari sovietici, perché anche questo era il suo mestiere, quello dell’ “analista militare”, una sorta di “auditor” responsabile, per conto dello Stato sovietico, di controllare la “qualità professionale” degli Alti Comandi. Una straordinaria affinità con Snowden, un “Hacker patriottico” della NSA, anch’egli animato da un senso sacrale del dovere e da un coraggio civile che rasenta la temerità.
Se l’ Europa non conta nulla nel mondo è anche perché, da noi, è stata spezzata questo genere di tradizioni militari.
Infine, la vicenda di Petrov dimostra che il vero pericolo di estinzione dell’ Umanità deriva non tanto, come nel IIà Dopoguerra, dal rischio della guerra nucleare, che un uomo sensato e coraggioso, come Petrov, può ancora sventare, bensì dall’ applicazione “a tappeto” dell’automatizzazione dei controlli, quale auspicata dai suoi superiori e presumibilmente oggi attuata, la quale, per rendere più credibile la deterrenza, delega la decisione sulla guerra nucleare ad un sistema informatico.
5.Il filo rosso dell’anti-arte.
Il volume di Simona Maggiorelli, Attacco all’ arte, La bellezza negata, ha il vantaggio di dimostrare che, dietro ai vari, apparentemente slegati, pericoli che minacciano l’arte (razionalismo, iconoclastia, mercificazione, conformismo), corre un filo rosso, di carattere ideologico, che va dalla filosofia greca, ai fondamentalismi monoteistici, passando per il giacobinismo, l’imperialismo napoleonico e hitleriano, fino alle lobbies occidentalistiche.
Tutte queste forze culturali, religiose e politiche (“i veri nemici della cultura”) sono ostili all’arte, in quanto espressione di libertà e di verità.
E’ noto come Platone criticasse l’arte in quanto distrazione dalla ricerca delle idee, come l’iconoclastia vada dalla vicenda del Vitello d’Oro, a Leone l’Isaurico, all’ ISIS. Meno noto è che anche i giacobini considerassero l’arte come una deviazione dalla purezza rivoluzionaria e un’espressione dell’ Ancien Régime, e quanto la strumentalizzazione dell’ arte abbia accomunato comunismo sovietico, magnati americani e agenti della CIA. Forse, in questo quadro, manca un poco la funzione di collegamento, fra questi svariati ambienti, svolta dall’ intellighentija trockista, che tanta parte aveva avuto in operazioni politiche commerciali quali la promozione in Europa dell’ Espressionismo Astratto.
Manca anche (ma non ce ne stupiamo, visto che è il vizio perfino della parte migliore della cultura rappresentata al Salone), un tentativo di spiegazione dell’ affievolirsi odierno della creatività artistica, che va ricondotto, a nostro avviso, all’incombere del dominio delle Macchine Intelligenti.
Manca, infine, una seppur subliminale consapevolezza dell’ esigenza di una politica culturale europea, tanto per la creazione, quanto per la conservazione. Non dimentichiamo infatti quanti fenomeni storici (dalla “Old Europe”, alle “poleis”, alla civiltà greco-romana, al Cristianesimo antico, all’Illuminismo),e quanti siti , da Lepenski Vir a Stonehenge, a Creta, Troia, Micene, Atene, Delfi ed Olimpia, a Roma, Firenze, Venezia, a Istanbul e Granada, a Vienna, Parigi, Londra, Varsavia, Budapest e San Pietroburgo, siano essenziali per la stessa Identità Europea.
Una nuova arte potrà nascere solo da un dialogo fra tutte le culture circa la sfida delle Macchine Intelligenti, impostato sulla base delle diverse tradizioni, fra le quali un ruolo particolare hanno quella europea, e quella italiana in particolare.



