Cosa c’è di eccezionale nell’eccezionalismo americano e le cause della sua crisi
Riceviamo in Redazione, e riportiamo, l’articolo a firma di Rob Piccoli pubblicato su “www.atlanticoquotidiano.it” in data 7 agosto 2019
Agli americani piace pensare di essere un popolo eccezionale, ed in effetti lo sono. Essi parlano di se stessi come di una nazione che irradia la propria luce dalla “porta d’oro” di Ellis Island, donne e uomini che “hanno amato il proprio Paese più di sé stessi, e la misericordia più della vita”, come recita “America the Beautiful”, la bella poesia di Katharine Lee Bates diventata canzone e quasi-inno nazionale degli States. Quello che viene chiamato “l’ecezionalismo americano” è quasi diventato un moderno banco di prova politico… ma che cos’è, e che cosa c’è di eccezionale nell’eccezionalismo americano?
Questo è più o meno l’incipit di un lungo articolo (quasi cinquemila parole) che Allen C. Guenzo, Henry R. Luce Professor di Storia della guerra civile presso il prestigioso ed esclusivo Gettysburg College, in Pennsylvania, ha pubblicato qualche giorno fa sull’altrettanto prestigioso City Journal, emanazione del think tank newyorchese Manhattan Institute for Policy Research. Lo scopo dell’articolo è precisamente quello di rispondere alla domanda di cui sopra.
Nel suo excursus, scrupoloso ma necessariamente sintetico, Guenzo ricorda ovviamente il giovane aristocratico francese Alexis de Tocqueville, che fu il primo ad applicare il termine “eccezionale” agli americani nel suo capolavoro assoluto, Democracy in America, pubblicato negli anni ’30 del XIX secolo. Per poi passare ai due eventi che aprirono la strada all’esperimento americano: l’Illuminismo e la Rivoluzione Americana. Il primo, che a sua volta affonda le radici nella rivoluzione scientifica di Galileo e Newton, poiché propose un modo radicalmente eccezionale di ri-concepire la società umana. La seconda viene descritta da Guenzo come “una stupenda esplosione di energia” con la quale gli americani “ribaltarono l’intera struttura—politica, costituzionale, legale e sociale—della gerarchia e applicarono gli esperimenti di pensiero dell’Illuminismo circa l’eguaglianza e i diritti naturali alla pratica politica. […] Gli americani non chiesero semplicemente una versione corretta del common law o della società gerarchica britannica; essi proclamarono la creazione di un novus ordo seclorum.” La loro voce, ebbe a dire il “Leone di Anacostia”, cioè Frederick Douglass—l’ex schiavo che divenne una delle figure più importanti della storia afroamericana e dell’intera storia degli Stati Uniti—“fu come la tromba di un arcangelo che chiamava a giudizio antiche oppressioni e tirannie secolari. […] Essa annunciava l’avvento di una nazione basata sulla fratellanza umana e sulle auto-evidenti verità di libertà e uguaglianza. La sua missione era la redenzione del mondo dalla schiavitù”.
E ancora: nell’America rivoluzionaria, scrisse Thomas Paine, uno dei Founding Fathers, autore di Common Sense, un libro celeberrimo che forgiò un’intera generazione di compatrioti, gli americani stanno “cominciando il mondo daccapo. […] La nascita di un mondo nuovo è a portata di mano, e una stirpe di uomini, numerosi quanto forse l’intera Europa ne può contenere, stanno per ricevere la propria porzione di libertà dagli eventi di pochi mesi”. Quella “porzione di libertà”, spiega Guenzo, sarebbe stata “un ordine politico senza gradi, né prelati, né gerarchie; un governo che impone dei limiti a se stesso e si colloca all’interno di confini stabiliti da una Costituzione scritta; un’identità basata non su razza, sangue e suolo, né sulla discendenza e neppure sulla lingua, ma su una singola frase tanto inesorabilmente logica quanto spaventosamente breve: ‘Tutti gli uomini sono stati creati uguali’. Agli occhi degli europei, una follia.”
Di certo l’eccezionalismo americano dette inizio a un nuovo tipo di politica: non semplicemente qualcosa di diverso, dal momento che gli americani avevano affermato e realizzato un nuovo ordine naturale che rendeva automaticamente obsoleti tutti i sistemi politici europei, facendo sembrare questi ultimi tanto artificiali e irrazionali quanto le leggi di Newton avevano reso irrilevante la fisica medioevale. “Noi americani,” scrisse Herman Melville, “siamo lo speciale popolo eletto, l’Israele del nostro tempo; noi portiamo l’arca delle libertà del mondo”.
Ma, attenzione, ricorda Guenzo, il nuovo framework politico che era stato istituito non fu che la prima delle tre gambe dello sgabello dell’eccezionalismo americano: se non erano i titoli e i gradi ereditati che davano autorità nella nuova società, allora spettava alla libera iniziativa dei cittadini il fare di se stessi ciò che desideravano, e con un governo che da se stesso si assegnava poteri limitati le energie dei cittadini medesimi dovevano essere orientate verso i commerci. Ed ecco che, accanto ad una nuova politica, sorgeva una nuova economia: la seconda gamba. “Chi è allora l’americano, questo uomo nuovo?” si domandava nel 1782 Hector St. John de Crèvecoeur, un altro aristocratico francese, trapiantato nel Nuovo mondo. Bellissima la risposta: “È un americano che ha detto addio all’ozio involontario, alla dipendenza servile, alla fatica inutile […] ed è passato a fatiche di una natura molto differente, nonché generosamente premiate.” Il tutto aveva anche risvolti che suscitavano qualche naso arricciato. Ad esempio la scrittrice britannica Frances Trollope non potè fare a meno di osservare inorridita che “per strada, nei campi, a teatro, al caffè o a casa” questi benedetti americani non sembravano in grado di parlare tra di loro “senza pronunciare la parola DOLLARI”. Eppure, forse è proprio grazie a – e in conseguenza di – un intercalare come questo che l’America è un Paese in cui, come sentenziò Abe Lincoln, “ogni uomo può farsi da solo”. Perché, come disse nel 1859 il futuro sedicesimo presidente degli Stati Uniti, che aveva in mente anche la propria storia personale, se è inevitabile che vi siano ineguaglianze ed eccessi anche estremi, il “sistema” americano è “giusto, generoso e prospero” e “apre la strada a tutti”. Certo, non tutti potranno avere successo, ma questo non è un argomento che possa essere usato contro il sistema nel suo complesso.
E veniamo alla terza gamba dell’eccezionalismo, quella che si è dimostrata la più traballante: l’atteggiamento e il rapporto verso/con il resto del mondo. La novità delle altre due gambe (politica ed economia), spiega Guenzo, fu talmente grande che fu difficile per gli americani non vedere se stessi come parte di un “piano prestabilito”. Ho ricordato prima le parole di Frederick Douglass, ma persino prima della Rivoluzione il filosofo-teologo Jonathan Edwards (1703-1758) aveva visto l’America come il pilastro di uno schema di redenzione del mondo operata dall’alto. E suo nipote, il teologo e poeta Timothy Dwight, mise in versi quella missione, proclamando il “vangelo politico americano”:
“Come la primavera del giorno non ha limiti, il tuo splendore scorrerà,
E i piccoli regni della terra davanti a te si inchineranno;
Mentre le bandiere dell’unione, in trionfo spiegate al vento,
Metti a tacere il tumulto della guerra e dai pace al mondo.”
Ora, però, se Dio aveva in serbo un ruolo speciale per l’America, esso doveva rimanere strettamente circoscritto, cioè non bisognava aspirare ad estendere quella cultura redentrice ad altre nazioni. Anzi, il resto del mondo rappresentava una potenziale minaccia per l’esperimento americano. Come chiarì e promise John Quincy Adams, sesto presidente degli Stati Uniti, “Ovunque i principi di libertà e indipendenza siano stati o saranno sventolati, là è il cuore dell’America, la sua benedizione e le sue preghiere […]. Ma essa non va all’estero in cerca di mostri da distruggere. Essa simpatizza e sostiene moralmente la libertà e l’indipendenza di tutti, ma è il campione e il vindice solo della propria libertà e della propria indipendenza.”
Ma gli americani non furono sempre coerenti con queste promesse. E qui evidentemente si sprecano gli esempi di tentativi – anche riusciti – di convertire l’eccezionalismo americano in uno sforzo missionario e gli americani in salvatori della civiltà. Tanto che ne facciamo grazia al lettore. Diciamo solo che a partire dalla seconda guerra mondiale l’America ha spesso ceduto alla tentazione di abbandonare la strada maestra, con il risultato che, quando gli Usa hanno abbracciato soluzioni multilaterali (o multinazionali), si sono trovati assoggettati alle logiche di alleati, europei o extra-europei, i quali, pur essendosi lasciati alle spalle le antiche aristocrazie e gerarchie ereditarie, le hanno sostituite con burocrazie che spesso si comportano nello stesso modo. Peggio che andar di notte, poi, se si agisce unilateralmente: accuse di arroganza a non finire. Salvo poi che, quando gli Stati Uniti si astengono dall’intervenire, vengono accusati di isolazionismo…
Ma la terza gamba non è la sola che soffre di pericolosi scricchiolii, nota Guenzo. Anche l’associazionismo – che, ricordiamolo, era stato elogiato e portato ad esempio da Tocqueville – sembra essere entrato in crisi. Molti americani hanno smesso di dedicare tempo ed energie alle associazioni di volontariato per confidare sempre di più sulle agenzie statali e sulla legislazione amministrativa. E poi si registra l’emergere dell’identity politics, con (soprattutto, ma non solo) il Partito democratico che insegue l’identitarismo ed ha perciò progressivamente perso di vista il centro di gravità dell’elettorato americano – la classe media lavoratrice, per lo più bianca, che da sempre rappresenta la spina dorsale sociale e del Paese. Ma se ogni identità, in forza di questa nuova prospettiva, viene considerata “eccezionale” in sé e per sé, chi ne fa le spese è l’eccezionalismo americano… Emblematico, da questo punto di vista, la spiegazione che Barack Obama fornì al Financial Times: se l’America è eccezionale, lo è solo nel senso che i britannici credono nell’eccezionalismo britannico, i greci credono nell’eccezionalismo greco, ecc. Il contrasto con la descrizione quasi mistica dell’America che diede Ronald Reagan – “la città splendente sulla collina” – è totale.
Ma nulla, annota Guenzo, ha minato la fiducia nell’eccezionalismo americano quanto l’erosione della mobilità economica: gli Stati Uniti sono diventati tanto economicamente immobili quanto il Regno Unito, in cui “il 10 percento della popolazione si è calcificato in una aristocrazia che vede se stessa come parte di un global network di comunicazioni e scambi, e prova poca simpatia per chi è rimasto indietro”.
Infine, l’autore si sofferma sugli aspetti più filosofici dell’intera questione: “Ciò che rese l’esperimento americano eccezionale fu che esso non si fondava (come altre identità nazionali) su qualche mito o leggenda tribale, ma sulla scoperta di leggi e diritti naturali tanto inconfutabili quanto la legge di gravità e nati dalla stessa fonte intellettuale.” Ma poi vennero il pragmatismo di William James e dei suoi eredi, il pluralismo valoriale di John Rawls e infine il postmodernismo.
Insomma, molte sono le obiezioni e le contraddizioni con le quali l’eccezionalismo americano deve oggi fare i conti. Allen C. Guelzo è tuttavia ottimista e si dichiara convinto che le difficoltà del tempo presente possano essere affrontate con successo. Bella la conclusione del saggio: “Ce la possiamo fare, realisticamente? Possiamo liberare la nostra vita pubblica dalla morsa della nuova gerarchia di burocrati e, oltremare, ritirarci dalle crociate in politica estera? Possiamo, in poche parole, far ricorso con successo ai nostri principi originari? Beh, lo abbiamo già fatto, una volta.”
La sfida, decisamente, è di quelle epocali. Chi scrive condivide l’ottimismo di Allen C. Guelzo, ma l’America di oggi è percorsa da movimenti intellettuali talmente distanti, se non radicalmente contrapposti, rispetto al clima, alle speranze e alle certezze che caratterizzarono le origini dell’esperimento americano, che nutrire seri dubbi sulle possibilità di “restaurazione” dello spirito delle origini è più che mai lecito. Proprio per questo, però, chi ama e considera l’eccezionalismo americano un bene prezioso e irrinunciabile è chiamato a difenderlo e promuoverlo con tutte le proprie energie intellettuali e morali. Non occorre essere americani per sentirsi in obbligo di accettare la sfida, basta amare l’America, quello che ha rappresentato e che, se Dio vuole, continuerà a rappresentare fino alla fine dei tempi. God Bless America.