TESTO UNIFICATO ZAN “ANTI-OMOTRANSFOBIA”: PERCHÉ È LIBERTICIDA E DISCRIMINATORIO
Riceviamo in Redazione, e riportiamo, l’articolo pubblicato su “www.centrostudilivatino.it” in data 13 luglio 2020
L’on. Zan, relatore delle p.d.l. contro la omotransfobia ha depositato in Commissione Giustizia alla Camera, il testo unificato, che sarà oggetto di discussione e di esame nei prossimi giorni: pubblichiamo una scheda di lettura critica dell’articolato, che costituisce una sorta di appendice del volume OMOFOBI PER LEGGE? Colpevoli per non aver commesso il fatto (a cura di A. Mantovano- contributi di Farri, Airoma, Ronco, Leotta, Cavallo e Respinti), Cantagalli, Siena 2020.
1. Sta per iniziare in Commissione Giustizia alla Camera dei Deputati l’esame e il voto delle proposte di legge C. 107 (Boldrini e altri), C. 569 (Zan e altri), C. 868 (Scalfarotto e altri), C. 2171 (Perantoni e altri) e C. 2255 (Bartolozzi), Misure di prevenzione e contrasto della violenza e della discriminazione per motivi legati al sesso, al genere, all’orientamento sessuale e all’identità di genere: dopo una prima fase dedicata alle audizioni e alla discussione generale, il relatore on Zan ha redatto un testo unificato.
Il Centro studi Rosario Livatino, che ha preso parte alle audizioni con propri esponenti, ha curato per l’editore Cantagalli una pubblicazione che ne raccoglie le relazioni, coordinandole ed evitando sovrapposizioni[1]: nell’illustrazione del testo unificato che segue si dà per scontata la conoscenza dei rilievi alle singole proposte contenuta nel libro, e a essi si rinvia.
2. Più che una sintesi, il t.u. Zan sembra la sommatoria delle cinque p.d.l. Questo emerge già dai primi due articoli, che estendono la portata degli art. 604 bis e 604 ter del codice penale, a loro volta introdotti dalla c.d. “legge Mancino”. Nelle varie p.d.l. il movente della discriminazione è stato etichettato con formule differenti: AC. 2255 (Bartolozzi) utilizza la formula “di genere”; AC. 2171 (Perantoni) e AC. 569 (Zan) utilizzano la formula “fondati sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere”; AC. 868 (Scalfarotto) utilizza la formula “fondati sull’omofobia o sulla transfobia”; AC. 107 (Boldrini) utilizza la formula “motivati dall’identità sessuale della vittima”. Già non vi è unanimità sul significato di ciascuna di tali espressioni perché generica e controversa: maggiore confusione deriva dall’assenza di una categoria unica di riferimento. Il t.u. Zan non opera una scelta, ma estende sia la fattispecie di reato di cui all’art. 604 bis, sia la circostanza aggravante di cui all’art. 604 ter agli atti discriminatori “fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere”: mette insieme tutte le espressioni usate nelle differenti p.d.l. E quindi lascia al giudice, nell’applicazione delle nuove disposizioni, il potere più ampio, oltre il limite dell’arbitrio, per riempire di senso e di contenuto le categorie adoperate.
3. Maggiore chiarezza non viene dalla lettura della relazione che accompagna il testo unificato: avvertendo il peso dei rilievi mossi durante le audizioni, l’on Zan si impegna nel respingere la censura di violazione della tassatività della norma penale; tuttavia lo fa con tale apoditticità da ottenere l’esito contrario. Scrive il relatore che “la terminologia prescelta fornisce (…) maggiori garanzie sul piano della determinatezza della fattispecie penale e, allo stesso tempo, evita formulazioni discriminatorie. Parlare di sesso, genere, orientamento sessuale e identità di genere consente infatti di dare riconoscimento e protezione a queste dimensioni della personalità, indipendentemente dalla loro specifica manifestazione nell’esperienza di vita del soggetto: in altre parole, la formulazione prescelta consente di considerare e proteggere da discriminazione e violenza il sesso e ogni declinazione del genere, degli orientamenti sessuali e dell’identità di genere della persona, così rispettando pienamente l’articolo 3 della Costituzione. Inoltre, l’enumerazione dei diversi aspetti della personalità oggetto di riconoscimento e protezione potrebbe consentire di considerare anche la dimensione multipla o intersezionale della discriminazione e della violenza (quella che, cioè, investe diversi aspetti della personalità allo stesso tempo: ad esempio, una donna lesbica può subire discriminazione o violenza in quanto donna e in quanto lesbica, o viceversa)”.
Se l’obiettivo è di garantire specificità alla norma incriminatrice, non si può dire che il risultato sia raggiunto: intanto non si comprende come possa un profilo di maggiore determinatezza derivare dall’uso di più categorie di riferimento, quando in talune delle p.d.l. (cf. per es. C. 107 Boldrini e altri) di ciascuna di esse viene fornita la definizione, in termini distinti l’una rispetto l’altra. E poi, si provi a consegnare all’interprete, fra gli altri, il canone esegetico della “dimensione multipla o intersezionale della discriminazione”: l’unico dato certo è che il tot capita tot sententiae diventerà la regola. E ciò in un contesto non già di accademia, al cui interno dilettarsi su come intendere l’“identità di genere” o l’“orientamento sessuale”: bensì in un contesto di giustizia penale, che prevede sanzioni fino a un massimo di sei anni di reclusione; sanzioni che, oltre a essere in sé pesanti, permettono di utilizzare strumenti di indagine come le intercettazioni (per le quali è sufficiente un limite sanzionatorio massimo di cinque anni) e di imporre misure cautelari restrittive della libertà, fino al carcere.
Per fare un esempio concreto, se – in virtù dell’arbitrio che viene concesso al giudice – una associazione pro family o pro life ha nello statuto come propria finalità la diffusione del modello di famiglia esclusivamente come unione di un uomo e di una donna finalizzato al mutuo aiuto fra coniugi e alla procreazione naturale, nessuno oggi può in coscienza e a occhi aperti garantire che, in virtù dell’art. 604 bis cod. pen., come ridisegnato dal t.u. Zan, un pubblico ministero non attivi mezzi invasivi di indagine – intercettazioni telefoniche e ambientali – e non proponga misure restrittive della libertà: se non vale la lettura obiettiva delle nuove disposizioni, insegna qualcosa l’esperienza delle Nazioni nelle quali disposizioni simili sono già in vigore, con casi di grave discriminazione per mano pubblica dei sostenitori della famiglia.
4. Il relatore avverte la concretezza del rischio – alla stregua delle osservazioni formulate in sede di audizioni -, poiché opera plurimi riferimenti a documenti internazionali, a decisioni di Corti europee e a pronunce della Corte costituzionale italiana: il tutto per convincere che il suo testo non deroga al criterio della tassatività delle norme penali. Ma questa operazione appare manipolatoria e maldestra, come suggerisce la lettura delle fonti cui il relatore fa riferimento.
Egli cita, fra le altre, “la sentenza n. 221/2015 della Corte costituzionale, che ha riconosciuto il «diritto all’identità di genere quale elemento costitutivo del diritto all’identità personale, rientrante a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona» (così il par. 4.1 del Considerato in diritto)”; e la sentenza della Corte costituzionale n. 138/2010, per il riferimento che essa fa “all’orientamento sessuale come dimensione della personalità meritevole di protezione”.
Quanto alla prima, l’on Zan trascura di considerare: a) che con quella pronuncia la Consulta ha dichiarato non fondata la questione sollevata dal Tribunale di Trento, mirante a una estensione della legge sul cambiamento di sesso; b) che la Corte utilizza l’espressione “identità di genere”, non altre, in un contesto di trasformazione della identità sessuale della persona, con o senza il passaggio dell’intervento chirurgico; c) che la Corte non sfiora neanche l’utilizzo di quella espressione in ambito penalistico.
Con la seconda (sent. 138/2010) la Consulta ha dichiarato per un verso inammissibili (quanto al confronto con l’art. 2 Cost.), per altro verso non fondate (quanto al confronto con gli art. 3 e 29 Cost.), le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte di appello di Venezia e dal Tribunale di Trento nei confronti delle norme del codice civile che impediscono di equiparare al matrimonio l’unione fra persone dello stesso sesso. Giova riportare una passaggio di tale decisione, anche a beneficio dell’on Zan: “I costituenti, elaborando l’art. 29 Cost., discussero di un istituto che aveva una precisa conformazione ed un’articolata disciplina nell’ordinamento civile. Pertanto, in assenza di diversi riferimenti, è inevitabile concludere che essi tennero presente la nozione di matrimonio definita dal codice civile entrato in vigore nel 1942, che, come sopra si è visto, stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso. In tal senso orienta anche il secondo comma della disposizione che, affermando il principio dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, ebbe riguardo proprio alla posizione della donna cui intendeva attribuire pari dignità e diritti nel rapporto coniugale”. Se i giudici costituzionali riproponessero questo passaggio a t.u. Zan già approvato non rischierebbero pur essi l’iscrizione nel registro degli indagati per la sola ragione che godono dell’immunità quanto al contenuto delle loro pronunce!
5. Il livello di rigore scientifico della relazione al t.u. è peraltro confermato dall’insistenza sulle dimensioni del fenomeno dei reati che avrebbero come movente la discriminazione su base di orientamento sessuale e di identità di genere. Nelle nostre audizioni abbiamo riportato i dati ufficiali, raccolti attingendo in modo largo anche alle segnalazioni delle associazioni Lgbt, a UNAR e ai media, dall’apposito Osservatorio, l’Oscad, istituito nel 2010 al Ministero dell’Interno, che descrivono l’esatto contrario di una emergenza: 26,5 segnalazioni in media all’anno da settembre 2010 a dicembre 2018. A questi dati l’on Zan replica riportando in modo generico “la documentazione prodotta da agenzie internazionali – come la Lgbti Survey della Fundamental Rights Agency dell’Unione Europea – e da Ilga Europe” e una inchiesta giornalistica, di cui non specifica le fonti: si può approvare una legge del genere sulla scorta di una base così di parte, priva di qualsiasi dettaglio e in contrasto con i numeri ufficiali?
Da ultimo, la relazione al t.u. mostra preoccupazione per il pericolo, evocato anche nelle nostre audizioni, per la libertà di manifestazione del pensiero, e quindi per il contrasto con l’art. 21 Cost.; essa afferma infatti che “l’intervento in materia penale (…) non colpisce qualsiasi opinione critica rispetto alle scelte e allo stile di vita delle donne o delle persone LGBT+ (formulata, ad esempio, richiamando le posizioni di una confessione religiosa al riguardo). Tali espressioni resteranno consentite, come ovvio in una democrazia. Ad essere colpite saranno, piuttosto, quelle opinioni formulate in modo lesivo della dignità degli individui e capaci anche per questo di determinare il concreto pericolo di compimento di atti discriminatori e violenti”. Non vi è però una sola parola di replica, entrando nello specifico, alla quantità di norme penali – fattispecie incriminatrici e circostanze aggravati – che nelle loro generalità e astrattezza, come abbiamo avuto modo di illustrare nel volume prima menzionato, già garantiscono in modo completo e dettagliato tali esigenze.
6. L’art. 3 del t.u. riprende da AC. 107 (Boldrini e altri) le sanzioni accessorie da inserire nella c.d. legge Mancino. Si legge nella relazione che esso “introduce la possibilità di svolgere le attività non retribuite a favore della collettività previste (…) anche nell’ipotesi di sospensione condizionale della pena e di sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato (…). prevede che l’attività possa essere svolta anche presso associazioni e organizzazioni che si occupano della tutela delle vittime dei reati di cui all’articolo 604-bis”. Dunque, nell’ipotesi di condanna a pena inferiore a due anni di reclusione, che è il limite per fruire della sospensione della pena, la concessione di quest’ultima può essere subordinata – come pure per applicare l’istituto della messa in prova – alla prestazione di lavoro gratuito alle dipendenze di associazioni LGBT.
L’ordinamento permette di imporre specifiche condizioni per fruire del beneficio della sospensione della pena: il giudice ben può sancire che chi ha provocato un danno a una persona dovrà corrisponderle la somma fissata dal giudice a titolo di risarcimento, e così evitare l’applicazione della sanzione inflitta. La legge Mancino ha individuato quale sanzione accessoria alle condanne per la violazione delle norme da essa introdotte la prestazione di attività non retribuita in favore di organizzazioni di assistenza sociale o di volontariato: è ragionevole che chi abbia commesso atti di violenza per motivi razziali vada ad aiutare per un tempo delimitato realtà che si occupano dell’assistenza ai disabili o ai tossicodipendenti.
Ma l’estensione di questa previsione da parte del t.u. Zan suona come ulteriormente discriminatoria, una sorta di contrappasso su base ideologica: non hai voluto piegarti sui temi della vita e della famiglia? e adesso vai a lavorare gratis per chi ha posizioni opposte alle tue! Sei per il matrimonio quale unione fra un uomo e una donna? Dovrai affiggere manifesti o predisporre il materiale propagandistico per una manifestazione in favore del matrimonio e dell’adozione same sex! La norma penale diventa così mezzo di “rieducazione” su base ideologicamente corretta.
7. L’art. 4 del t.u. riprende da AC. Perantoni e altri l’estensione di una disposizione del codice di procedura penale – l’art. 90-quater – riguardante le modalità di assunzione delle dichiarazioni di persone vulnerabili, “includendo – così precisa la relazione – tra le condizioni di vulnerabilità della persona offesa, rilevanti ai fini dello svolgimento del processo penale, anche quella derivante dalla circostanza che il reato sia stato commesso per motivi legati al sesso, al genere, all’orientamento sessuale e all’identità di genere”. E’ una precisazione per un verso inutile, perché la vulnerabilità della vittima è valutata dal giudice caso per caso sulla base di parametri ampi; per altro verso integra anche sul piano del processo penale quel che l’intero t.u. Zan configura nel suo insieme: un diritto ad hoc per quella che viene individuata come una categoria di persone che necessita di una tutela di settore, superiore rispetto ad altri.
8. L’art. 5 istituisce formalmente per il 17 maggio la “Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia, al fine di promuovere la cultura del rispetto e dell’inclusione nonché di contrastare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivati dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere, in attuazione dei princìpi di uguaglianza e di pari dignità sociale sanciti dalla Costituzione” (co. 1). Il co. 3 precisa che in occasione di tale giornata “sono organizzate cerimonie, incontri e ogni altra iniziativa utile, anche da parte delle amministrazioni pubbliche, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, per la realizzazione delle finalità di cui al comma 1”. Entra senza ostacoli il gender nelle scuole, sul quale è in corso da anni un braccio di ferro fra il Ministero dell’Istruzione e le associazioni pro family, avente a oggetto la potestà educativa dei genitori, e il consenso che essi hanno il diritto di prestare o negare per iniziative di questo tipo.
Gli art. 6 e 7 estendono le competenze dell’UNAR-ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali della Presidenza del Consiglio, con progettazione triennale, e destinano i fondi per le nuove attività, mentre l’art. 9 provvede alla copertura finanziaria. Quest’ultima è “individuata nel Fondo per le esigenze indifferibili, di cui all’articolo 1, comma 200 della legge 23 dicembre 2014, n. 190, mediante corrispondente riduzione del medesimo”. In un momento di pesante crisi economica e sociale, l’esigenza di finanziare questa legge, in assenza di qualsiasi ragione che ne richieda l’approvazione, viene valutata “indifferibile”!
L’art. 8 – per riprendere la sintesi che ne fa la relazione – “dispone che l’ISTAT, con cadenza almeno triennale, effettui una rilevazione statistica sugli atteggiamenti della popolazione in relazione alla discriminazione e alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, oppure fondati sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere”. E’ la cifra della genericità che attraversa l’intero articolato: che significa “rilevazione statistica sugli atteggiamenti della popolazione”? “Atteggiamenti” è termine tecnico? Come un “atteggiamento” può essere statisticamente rilevato? Più della statistica richiama la tecnica del sondaggio, e l’atteggiamento viene desunto dalla risposta a un quesito del tipo: secondo lei…? Una proposta di legge che punta a conseguire effetti ideologicamente orientati adoperando lo strumento della legge penale, finisce per trasformare l’Istituto di statistica in una struttura per effettuare sondaggi.
[1] OMOFOBI PER LEGGE? Colpevoli per non aver commesso il fatto (a cura di A. Mantovano- contributi di Farri, Airoma, Ronco, Leotta, Cavallo e Respinti), Cantagalli, Siena 2020