Ratzinger non fu Oriana Fallaci in talare
Riceviamo in Redazione, e riportiamo, l’articolo a firma di Marco Margrita*, pubblicato in data 9 Gennaio 2023 su “www.strumentipolitici.it“
Custode della tradizione come fattore di novità, difensore del Logos e alternativo a ogni riduzione cristianista dell’Avvenimento cristiano. La Chiesa come “minoranza creativa”.
“Joseph Ratzinger è stato un grande teologo. La sua partecipazione al Concilio lo aveva posto di fronte alle grandi sfide della Chiesa nel mondo della fine del XX secolo. Fu un grande interprete, lucido e coraggioso, esigente quanto alla verità, fedele alla Tradizione ma libero da ogni nostalgia”.
Tra i molti interventi e commenti nei giorni successivi alla morte e ai funerali di Benedetto XVI, molti forvianti e tesi a costruire una narrazione funzionale alle partite in atto nella Chiesa, la nota diramata dei vescovi francesi alla comunicazione della notizia della conclusione del lungo cammino terreno del Papa emerito ci consegna un ritratto da cui è bene partire per affrontare il necessario percorso di compresione di quanto – e come – Benedetto XVI continuerà a parlarci. E non certo in “Codice” (con buona pace di misticheggianti spretati, cronisti che si sono fatti Dan Brown del tradizionalismo settario e filosofi rosso-bruni sempre alla ricerca di una porzione di visibilità in più nella “società dello spettacolo”).
Cristiani “minoranza creativa” per il bene di tutti
Fedele alla tradizione ma libero da ogni nostalgia lo fu sempre. Sin dalla sua celebre “profezia” del 1969 con la quale, allora giovane professore di teologia, concluse il suo ciclo di lezioni radiofoniche. Interrogato sulla fisionomia della Chiesa del futuro, vedendo approssimarsi “un enorme punto di svolta nell’evoluzione del genere umano, un momento rispetto al quale il passaggio dal Medioevo ai tempi moderni sembra quasi insignificante”, Ratzinger sostenne che essa “Ripartirà da piccoli gruppi, da movimenti e da una minoranza che rimetterà la fede e la preghiera al centro dell’esperienza e sperimenterà di nuovo i sacramenti come servizio divino e non come un problema di struttura liturgica. Sarà una Chiesa più spirituale, che non si arrogherà un mandato politico flirtando ora con la sinistra e ora con la destra”. Non (si) nascose che tutto questo avverrà “con fatica”, poiché “Il processo della cristallizzazione e della chiarificazione la renderà povera, la farà diventare una Chiesa dei piccoli”, Un processo “lungo e faticoso, perché dovranno essere eliminate la ristrettezza di vedute settaria e la caparbietà pomposa”.
Un processo lungo e fatico, tutt’altro che finalizzato alla conquista o all’ottenimento di quote di potere, compiuto da “cristiani ordinari” che non rinunceranno alla loro originalità quale autentico contributo al “bene comune”. Fedeli che consapevolmente e faticosamente agiranno. rifuggendo strade compromissorie. False vie “come lo è stata la strada dal falso progressismo alla vigilia della Rivoluzione Francese – quando un vescovo poteva essere ritenuto furbo se si prendeva gioco dei dogmi e insinuava addirittura che l’esistenza di Dio non fosse affatto certa – al rinnovamento del XIX secolo”. Dopo la prova di queste divisioni, però, “uscirà da una Chiesa interiorizzata e semplificata una grande forza. Gli uomini che vivranno in un mondo totalmente programmato vivranno una solitudine indicibile. Se avranno perduto completamente il senso di Dio, sentiranno tutto l’orrore della loro povertà. Ed essi scopriranno allora la piccola comunità dei credenti come qualcosa di totalmente nuovo: lo scopriranno come una speranza per se stessi, la risposta che avevano sempre cercato in segreto”.
Chiesa come compagnia di “uomini vivi” radicalmente cambiati dall’incontro con Cristo. Una “minoranza creativa”, come avrebbe detto in seguito, che non cerca la mediazione ma rischia nel farsi presenza testimoniante nel – e con il – suo vivere. Un “piccolo resto” che intanto osa avanzare al mondo, con “lieta baldanza”, nel qui e ora segnato dalla tentazione del “relativismo totalitario”, la proposta di capovolgere l’assioma degli illuministi, l’etsi Deus non daretur, poiché “anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita veluti si Deus daretur, come se Dio ci fosse” (cfr.L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture). Una proposta che vuole difendere davvero l’umano e la sua libertà, con un “allargamento della ragione”. In quest’ottica – e non riducendolo a ripiegamento o reattività – va letta anche la formula “principi non negoziabili”.
Il cristianesimo come “vero illuminismo” e la “sana laicità”
“Il cristianesimo, in quanto religione dei perseguitati, in quanto religione universale, al di là dei diversi Stati e popoli, ha negato allo Stato il diritto di considerare la religione come una parte dell’ordinamento statale. Ha sempre definito gli uomini, tutti gli uomini senza distinzione, creature di Dio e immagine di Dio, proclamandone in termine di principio, seppure nei limiti imprescindibili degli ordinamenti sociali, la stessa dignità». (…) In questo senso l’illuminismo è di origine cristiana ed è nato non a caso proprio ed esclusivamente nell’ambito della fede cristiana. Laddove il cristianesimo, contro la sua natura, era purtroppo diventato tradizione e religione di Stato (…) È stato merito dell’illuminismo aver riproposto questi valori originali del cristianesimo e aver ridato alla ragione la sua propria voce. Il Concilio Vaticano II, nella costituzione della Chiesa nel mondo contemporaneo, ha nuovamente evidenziato la corrispondenza tra cristianesimo e illuminismo, cercando di arrivare ad una vera riconciliazione tra Chiesa e modernità”. Ancora nell’ultimo intervento da cardinale a Subiaco, già richiamato in precedenza, il professore custode della Dottrina della fede che diventarà di lì a poco papa Benedetto XVI, così ci propone il “cristianesimo quale vero illuminismo”, se la si può chiudere in un formulazione quasi sloganistica.
Ecco che si comprende meglio il suo insistere sulla “sana laicità”, fondata sul ragionevole riconoscimento del valore pubblico dell’esperienza e della sapienza religiosa, da distingure rispetto al laicismo. Secondo le linee del suo dialogo col filosofo Jürgen Habermas su fede e ragione, del gennaio 2004, che Giuseppe Vacca, non credente e storico presidente dell’Istituto Gramsci, intervistato da Avvenire qualche giorno fa ha riconosciuto avere riproposto come “senza il principio di trascendenza, senza cioè una visione antropologica, si può avere della modernità solo una lettura miserabile e povera”.
La lezione di Ratisbona non fu la benedizione dei teocon
Fedele alla tradizione ma libero da ogni nostalgia, Joseph Ratzinger, cioè avversario della riduzione del cristianesimo a cristianismo occidentalista (occidentalismo di cui nemmeno Benedetto XVI, al di là degli storytelling di marca progressista o conservatrice, fu mai cappellano). Non si può pensare, insomma, che il Papa emerito defunto allo scadere del 2022 fosse una specie di “Oriana Fallaci in talare”.
In una recente intervista concessa all’Avvenire, Massimo Cacciari ha giustamente sottolineato che “Per lui “nulla salus extra ecclesiam”. La Chiesa non è una forma politica, perché ha una missione fondamentale, e la cristianità non sarebbe concepibile senza di lei. Quella esaltata da Schmitt e da tanti altri pensatori conservatori è una visione della Chiesa ridotta alla funzione di religio civilis che serve solo a tenere in forma questo mondo senza religio. La Chiesa per Ratzinger, invece, non è un katechon, non è ciò che trattiene il male e che tiene in forma questo mondo. Essa ha una missione evangelizzatrice in senso proprio, cioè deve mostrare il Cristo e interrogarsi sulla verità che Cristo manifesta”.
Per dirla ancora in estrema sintesi, allora, la sua celebre lezione a Ratisbona non fu una benedizione dei teocon. Il percorso di questi ultimi non può per nulla essere assimilato a quello di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI. Come causticamente spiegò Franco Cardini, rispondendo ad alcune domande de L’Unità all’indomani dell’elezione al soglio pontificio del teologo tedesco, “Nonostante gli sforzi fatti da certi mass media compiacenti, Benedetto XVI non è un Papa ‘teocon’ anche se c’è chi tenta di reclutarlo in questo campo (…) Puo’ dispiacere a quanti avevano cercato di reclutare il nuovo Papa nel campo politico del senatore Pera, ma la critica al relativismo di cui Ratzinger si fa interprete non ha nulla a che vedere con quell’etnocentrismo che il liberal-liberalismo chiama a sostegno delle sue tesi, secondo cui il nuovo ordine mondiale andrebbe fondato sull’adeguamento dell’intero pianeta agli interessi del ceto dirigente, e dominante, occidentale”.
Non meno forte nel rifiutare ogni assimilazione, più recentemente, è stato il filosofo Massimo Borghesi. In un colloquio con Formiche, un paio di anni fa, ricordò “la pagina poco nota dell’opposizione dei teocon a Benedetto XVI”. Nonostante “si continui con la lettura unilaterale per cui papa Ratzinger sarebbe stato una pedina nelle mani dei teocon. In realtà i teocon tentano, dopo la frattura con Giovanni Paolo II sulla guerra, di riproporre il loro disegno egemonico sulla Chiesa rilanciando sul papato di Benedetto. Non gradiscono però Caritas in veritate, l’enciclica sociale del Papa del 2009. Weigel si spinge a scrivere un articolo, “Caritas in Veritate in Gold and Red”, in cui separa, con il bisturi, la parte “aurea” del documento la quale sarebbe scritta di pugno da Benedetto, da quella “rossa” elaborata a suo dire dalla Pontificia Commissione “Iustitia et Pax”. La prima sarebbe corretta, la seconda no. Con ciò diviene manifesto il metodo dei teocon. I documenti del magistero vengono accolti solo per la parte che è conforme alla ideologia teocon, il resto viene rifiutato”.
Vincere la tentazione organizzativista
Nella fedeltà alla tradizione intesa come fattore creativo e non ridotta nella quale rinserrarsi cercando la scorciatoia del potere si può ascrivere anche il forte richiamo a non cedere all’organizzativismo. Giova qui richiamare il Discorso tenuto ai cattolici impegnati nella Chiesa e nella società, in occasione della visita apostolica in Germania (Konzerthaus di Freiburg im Breisgau Domenica – 25 settembre 2011).
Ammettendo che “nello sviluppo storico della Chiesa” si manifesta la tendenza “di una Chiesa soddisfatta di se stessa, che si accomoda in questo mondo, è autosufficiente e si adatta ai criteri del mondo” – una Chiesa, cioè, che “non di rado dà così all’organizzazione e all’istituzionalizzazione un’importanza maggiore che non alla sua chiamata all’essere aperta verso Dio e ad un aprire il mondo verso il prossimo” – il Pontefice allora regnante ricordava ai propri connazionale che “per corrispondere al suo vero compito, la Chiesa deve sempre di nuovo fare lo sforzo di distaccarsi da questa sua secolarizzazione e diventare nuovamente aperta verso Dio. Con ciò essa segue le parole di Gesù: “Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo” (Gv 17,16), ed è proprio così che Lui si dona al mondo”.
Nel rifiuto di questo accomodarsi, secondo un Ratzinger ben diverso dalle rappresentazioni caricaturali che ne sono state offerte, nel tempo e anche in questi giorni, “in un certo senso, la storia viene in aiuto alla Chiesa attraverso le diverse epoche di secolarizzazione, che hanno contribuito in modo essenziale alla sua purificazione e riforma interiore. Le secolarizzazioni infatti – fossero esse l’espropriazione di beni della Chiesa o la cancellazione di privilegi o cose simili – significarono ogni volta una profonda liberazione della Chiesa da forme di mondanità: essa si spoglia, per così dire, della sua ricchezza terrena e torna ad abbracciare pienamente la sua povertà terrena. Con ciò condivide il destino della tribù di Levi che, secondo l’affermazione dell’Antico Testamento, era la sola tribù in Israele che non possedeva un patrimonio terreno, ma, come parte di eredità, aveva preso in sorte esclusivamente Dio stesso, la sua parola e i suoi segni. Con tale tribù, la Chiesa condivideva in quei momenti storici l’esigenza di una povertà che si apriva verso il mondo, per distaccarsi dai suoi legami materiali, e così anche il suo agire missionario tornava ad essere credibile. Gli esempi storici mostrano che la testimonianza missionaria di una Chiesa distaccata dal mondo emerge in modo più chiaro. Liberata dai fardelli e dai privilegi materiali e politici, la Chiesa può dedicarsi meglio e in modo veramente cristiano al mondo intero, può essere veramente aperta al mondo”.
Aperta al mondo, cioè fedele alla Tradizione ma libera da ogni nostalgia. Come ha insegnato Joseph Ratzinger – Benedetto XVI, che proprio per questo continua a parlarci e lo farà per molto altro tempo ancora.
[Fonte: https://strumentipolitici.it/ratzinger-non-fu-oriana-fallaci-in-talare2/]Marco Margrita, – Classe 1977, giornalista e consulente nel settore della comunicazione. Direttore del settimanale “Il nuovo Monviso” e di “2006più Magazine” (voce del gruppo Dai Impresa). Dirige la comunicazione di Echos Group. Collabora con diverse testate nazionali (tra cui Tempi) e locali. Ha lavorato per Pubbliche Amministrazioni, realtà d’impresa e del Terzo settore. Presidente regionale piemontese e componente dell’Esecutivo nazionale del Mcl – Movimento Cristiano Lavoratori. Consigliere d’amministrazione della Fondazione Italiana Europa Popolare e Componente del Comitato Scientifico della Fondazione De Gasperi. Co-autore, con Giorgio Merlo, del libro “I Granata” (Daniela Piazza Editore)