Istanbul, ragioni per pensare a una strage islamica
Riportiamo l’articolo, a firma di Stefano Magni, pubblicato su “La Nuova Bussola Quotidiana” il 2 gennaio 2017
Trentanove morti a Istanbul, un attentato nella notte di Capodanno. Peggio di così non poteva iniziare il 2017 per la Turchia. E il problema, per le indagini, è che i possibili mandanti sono troppi e la rivendicazione nessuna, come sempre nella Turchia di questi ultimi anni. Le peggiori stragi di civili, inclusa quella di Ankara del 10 ottobre 2015, non hanno alcuna firma. Ma, se non altro per esclusione, si arriva sempre all’Isis, che in Turchia ha basi, volontari e, per tre anni, anche un tacito appoggio da parte dello Stato.
Il luogo del massacro è la discoteca di lusso Reina, sulla riva europea del Bosforo, nel cuore del quartiere giardino di Ortakoy, un distretto delimitato da una moschea, una chiesa e una sinagoga, simbolo di quel che resta del cosmopolitismo e del secolarismo in Turchia. Sportivi, politici, Vip erano tutti frequentatori di questo locale dall’arredamento hi tech da cui si possono ammirare i colori cangianti del lungo ponte sul Bosforo. E’ in questo scenario che un uomo mascherato ha sparato al poliziotto di guardia e a un vigilantes all’ingresso. E’ morto così Fatih Chakmak, scampato già alla strage commessa e rivendicata dagli estremisti curdi del 10 dicembre scorso, sempre a Istanbul, di fronte allo stadio Besiktas. Dopo aver eliminato i servizi di sicurezza, il terrorista ha fatto irruzione nel locale, sparando a caso contro una folla di circa 700 persone, radunatasi per celebrare il capodanno. Fra le 39 vittime dell’attentato, quasi la metà sono stranieri. Stando alle informazioni finora raccolte, sono: 7 sauditi, 4 iracheni, 2 indiani, 2 tunisini e una vittima a testa per Siria, Libano, Israele (una ragazza arabo-israeliana), Belgio e Canada. E’ stato colpito un pezzo di mondo, soprattutto un pezzo dell’élite mediorientale.
La prima pista presa in considerazione dagli inquirenti è quella curda, se non altro visto il precedente recentissimo del 10 dicembre, sempre a Istanbul. Il portavoce del Pkk smentisce seccamente ogni responsabilità del suo gruppo nell’attentato. Il Partito dei lavoratori curdi, si legge nella nota, “non colpisce civili innocenti”. Lo stesso comunicato mette fortemente in dubbio che possa trattarsi di un attentato degli indipendentisti più radicali del Tak (Falchi della libertà). Il modus operandi e la scelta dell’obiettivo non costituiscono un alibi di ferro, ma certamente si può dire che i curdi non hanno mai mirato alla strage di civili. Hanno sempre puntato a colpire le istituzioni dello Stato turco, soprattutto esercito e polizia. Il Reina non è un bersaglio da Pkk.
Benché non lo abbia ancora detto (mentre questo articolo viene scritto), il presidente Erdogan, come in molte altre circostanze analoghe, mirerà a colpevolizzare i “gulenisti”, cioè i seguaci di Fetlullah Gulen. Il ricco politologo e stratega dell’islam politico, ex alleato e poi epurato dal presidente, è ritenuto da Ankara il responsabili del fallito golpe del 15 luglio scorso. La rete dei “gulenisti” è però tutto poco definita. A giudicare dalle decine di migliaia di arresti seguiti al fallito golpe, è costituita da quotidiani, magistrati, ufficiali, funzionari, procuratori, politici in Turchia e all’estero. I suoi confini sono abbastanza vaghi da inserirci chiunque sia sospetto. Ma è credibile che i gulenisti, rivali politici di Erdogan, abbiano colpito al cuore della città più laica, dunque la meno affezionata al presidente islamico? Anche qui, tutto è possibile, ma è ben poco probabile.
La pista che rimane, per esclusione, è quella del terrorismo jihadista, l’Isis o gruppi radicali islamici affini. Il bersaglio, a dire il vero, è tipico dello Stato Islamico. Un luogo di divertimenti, “impuro”, in una festa “pagana” quale il capodanno, ascoltando musica elettronica vietatissima (come tutte le altre forme di musica, d’altro canto). Una folla cosmopolita, dove anche solo sparare a caso vuol dire rischiare di colpire a morte politici, diplomatici, uomini di regime (o i loro figli) di paesi mediorientali “apostati” o direttamente “infedeli”. Un luogo di divertimento in una città che è culla del secolarismo nella Turchia “traditrice”, rea di aver voltato le spalle alla causa jihadista in Siria, che accetta di accordarsi con i russi e con il regime “eretico” di Assad. Il movente c’è tutto, manca solo la confessione, la firma, la rivendicazione dello Stato Islamico. Stando a testimoni della notte del terrore, pare che il terrorista abbia urlato “Allah Akhbar” prima di aprire il fuoco. E’ un indizio in più, anche se non sufficiente. Siti web del Califfato indicavano la Turchia come prossimo bersaglio. Anche questo è un indizio in più. Istanbul era già in allerta. Il consolato americano aveva avvertito di stare alla larga da luoghi affollati perché il rischio terrorismo era alto. Lo stesso locale colpito, il Reina, aveva aumentato il livello di sicurezza, nel suo piccolo. Chiaramente non è stato sufficiente.
C’è un motivo in più per credere che sia stato l’Isis: l’ambiguo rapporto fra Erdogan e le sue milizie, per tutta la durata della guerra civile in Siria. Per gli avversari del presidente islamico, non ci sarebbe nemmeno da parlare di “ambiguità”, ma di un appoggio palese e lampante almeno dal 2013 fino a quest’estate. Quei giornalisti, sia turchi che stranieri, che hanno provato a documentare il sostegno turco alla guerriglia jihadista, sono tutti finiti in carcere o sono morti in circostanze ancora da chiarire. Non esistono prove schiaccianti, né conferme indipendenti. Ma che la Turchia fosse usata come zona franca, area di smistamento e anche di reclutamento di jihadisti è ormai assodato. Il problema è nato, da un punto di vista turco, dopo il fallito golpe di luglio e il conseguente riavvicinamento di Erdogan a Putin (e quindi anche al regime di Assad in Siria). A pochi mesi di distanza dal golpe, la Turchia ha concluso un accordo sulla Siria che potrebbe essere definitivo e non prevede più il rovesciamento del regime di Damasco. Ma dal 2013 ad oggi, quanto si è estesa l’infiltrazione dei jihadisti nella società turca e nei suoi apparati di sicurezza? La domanda è d’obbligo se consideriamo che, lo scorso 19 dicembre, l’ambasciatore russo in Turchia è stato assassinato ad Ankara da un membro dell’élite della polizia, un uomo che aveva anche servito nella scorta personale di Erdogan.
Come tutti i leader autoritari, probabilmente anche il presidente turco pensa di poter effettuare agevolmente svolte improvvise, senza pagare pegno, facendosi forza sull’annichilimento di ogni opposizione. Ma ogni svolta ha un prezzo, inevitabilmente. Specie se si voltano le spalle ad alleati molto pericolosi e molto poco gestibili.