Salvatori della patria

Riportiamo l’articolo, a firma di Carlo Manacorda, pubblicato su “Lo Spiffero” il 2 gennaio 2017
Il decreto-legge è del 23 dicembre. Ha il numero 237. E’ pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dello stesso giorno. Contiene: “Disposizioni urgenti per la tutela del risparmio nel settore creditizio”. Vale 20 miliardi. E’ il provvedimento adottato dal Consiglio dei Ministri per salvare dal fallimento il Monte dei Paschi di Siena, la più vecchia banca del mondo. I 20 miliardi messi a disposizione dal Governo si troveranno nel 2017. Si autorizza l’emissione di titoli del debito pubblico per un pari importo. Il debito pubblico – già ora di 2.230 miliardi – crescerà dunque di altri 20 miliardi.
Dei 20 miliardi, 8,8 (anche su richiesta delle Autorità finanziarie europee) serviranno per la ricapitalizzazione del Monte dei Paschi. La parte restante potrà essere utilizzata, allo stesso scopo, per altre banche in sofferenza di liquidità. In primo luogo, Banca Etruria, Banca Marche, CariFerrara e CariChieti. Complesse operazioni finanziarie dovrebbero garantire il recupero almeno parziale delle somme che verranno messe a disposizione degli istituti di credito. In ogni caso, il decreto prevede un onere a carico del bilancio dello Stato per gli anni 2017-2019 di 582 milioni. Dopo il 2019, il costo massimo è calcolato in 290 milioni. Su tutte le operazioni veglierà Bruxelles affinché siano rispettate le regole dell’Unione europea sugli aiuti di Stato e sull’indebitamento statale.
Il salvataggio del Monte dei Paschi di Siena da parte dello Stato rappresenta dunque un ulteriore episodio dei già numerosi puntellamenti di enti privati traballanti effettuati dai governi italiani con fondi pubblici. Tra i remoti, quello del Banco Ambrosiano (1982). Tra i più recenti e noti, quello dell’Alitalia del 2008 per 4,1 miliardi. Che tuttavia – secondo valutazioni dell’Ufficio studi di Mediobanca – salgono a 7,4 miliardi se si aggiungono i 3,3 miliardi sborsati prima dalle casse pubbliche. Ora c’è il nuovo stato di crisi della rinata Alitalia che registra una perdita, per il 2015 e il 2016, di oltre 800 milioni. Qualora non si giungesse a un’intesa tra gli azionisti (tra i quali la compagnia di bandiera degli Emirati arabi uniti Etihad per il 49%) per versarle subito i 180 milioni necessari per riavviare il risanamento, potrebbe essere necessario nuovamente un intervento dello Stato. Se così avvenisse, si assisterebbe alla ri-nazionalizzazione della nostra compagnia aerea.
Ai salvataggi diretti dello Stato, si aggiungono quelli che esso impone alla sua banca ormai parallela: la Cassa Depositi e Prestiti – Cdp. La Cdp dispone infatti di una liquidità immensa che le deriva dai fiumi di denaro che le pervengono dal risparmio postale dei cittadini e che lei amministra per legge. Conferma questi salvataggi la relazione della Corte dei conti sulla gestione finanziaria della Cassa per gli anni 2014-2015. La Corte cita, tra gli enti in crisi sovvenzionati dalla Cdp, Parmalat, Ilva, Alitalia, Saipem, Fincantieri. E conclude sottolineando che si tratta di “interventi che hanno portato Cdp, in alcuni casi, ad operare ai margini della propria compatibilità statutaria”.
Guardando a questi fatti, qui non interessa tanto disquisire se debba essere lo Stato a gestire i fenomeni dell’economia oppure debba restarne estraneo lasciandone gli sviluppi alle dinamiche del libero mercato. Socialmente parlando, e ipotizzando le gravissime crisi occupazionali che ne conseguirebbero, è certamente indispensabile che intervenga lo Stato quando il privato dimostra di non essere più in grado di far quadrare i conti. Interessa piuttosto riflettere su almeno tre aspetti insiti nei salvataggi che si effettuano con denaro pubblico, costantemente e spudoratamente sottaciuti dalle autorità di governo.
Primo aspetto. Non esiste un denaro pubblico che si produce autonomamente. Il denaro pubblico è denaro dei cittadini. Quindi, quando i vari ministri annunciano che sarà lo Stato a effettuare un salvataggio di aziende decotte con fondi pubblici, dovrebbero avere almeno la compiacenza di dire che sono i cittadini che salvano le aziende coi loro denari. Denari già dati allo Stato pagando le tasse ordinarie, o quelle più elevate che verranno richieste per coprire gli oneri dell’aumento del debito pubblico necessario per effettuare il salvataggio. Denari che, comunque, non saranno restituiti ai cittadini sotto forma di servizi pubblici, che saranno ridotti a seguito del dirottamento delle risorse sui salvataggi. Nel caso poi dei salvataggi effettuati con i fondi della Cassa Depositi e Prestiti, è il risparmio dei cittadini che consente l’intervento dello Stato, non le abilità gestionali dei ministri.
Secondo aspetto. Alcuni cittadini pagheranno il salvataggio due volte. La prima per le considerazioni generali fatte sopra. La seconda – presente nel caso dei salvataggi delle banche – per aver consegnato i propri risparmi a istituti di credito che, già in stato fallimentare, davano in cambio strumenti finanziari ad alto rischio (obbligazioni subordinate), quasi sempre accettate dai risparmiatori inconsapevolmente. Il recupero di questi risparmi, e nonostante le assicurazioni dei governanti, diventa altamente aleatorio. Certamente spostato in avanti nel tempo e parziale (i clienti di Banca Etruria, Banca Marche, CariFerrara e CariChieti sono ancora in attesa di ottenere i rimborsi promessi; che saranno, in ogni caso, soltanto per l’80% e se ricorrono le condizioni previste dalle norme salva-banche).
Terzo aspetto. Tutti i cittadini (chi più chi meno) pagano i salvataggi di Stato, necessari quando le aziende sono in stato di default. Ma i governanti pubblici si guardano bene dal fare nomi e cognomi di chi, avendo spolpato fino all’osso i capitali aziendali per propri o altrui interessi, ha causato lo stato fallimentare. E costoro (per lo più) non pagano per il maltolto.
Nel default delle banche, c’è poi la questione delle crisi patrimoniali determinate dai cosiddetti “crediti deteriorati”, finanziamenti cioè concessi a clienti che non hanno rimborsato il debito. Nel caso di Montepaschi, i crediti deteriorati (non performing loans – npl) ammontano a 45,5 miliardi lordi. Il problema si risolve con un artifizio. Si costituisce una nuova società con lo stesso nome di quella in fallimento, senza debiti (sperimentazione già avvenuta per Alitalia, Banca Etruria, Banca Marche, CariFerrara e CariChieti), e si scaricano i crediti deteriorati ad un’altra società o a una bad bank che dovrebbe darsi da fare per recuperarli. Se il recupero fallisce, paga nel tempo lo Stato, cioè il cittadino. Per icrediti deteriorati, la domanda che si pone è sempre la medesima: è possibile conoscere l’identità dei debitori insolventi? Nulla trapela mai al riguardo né per le banche in fallimento né per quelle che li hanno in pancia e che pesano sul loro patrimonio. Tra i nomi dei debitori insolventi potrebbero forse comparire quelli di molti personaggi del jet set. Se così fosse, un po’ di ludibrio per loro non guasterebbe.
A conti fatti, potrebbe essere il caso di aggiungere alle ben note qualificazioni del popolo italiano come quelle di santi, poeti e navigatori anche quella di pagatori. A ben vedere, sarebbe anzi la qualificazione prevalente.