LA MALATTIA DELL’ EUROPA di Aldo Rizza [Parte 3]

Proseguendo nell’attuazione dei propri fini statutari, http://www.rinascimentoeuropeo.org/statuto/Statuto.pdf, RINASCIMENTO EUROPEO ha creato, sul proprio sito web www.rinascimentoeuropeo.org, uno spazio interamente destinato a raccogliere scritti e riflessioni su temi d’interesse generale che rientrino nelle finalità dell’Associazione.
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L’idea del “Tramonto”
Nella seconda metà dell’Ottocento si diffonde la convinzione che l’Europa stia avanzando irresistibilmente verso il progresso: le scoperte della scienza e le invenzioni della tecnica producono benessere e sicurezza crescenti per strati sempre più vasti della popolazione e il dominio coloniale porta alla crescita di un senso di superiorità razziale che alimenta gruppi movimenti ed intellettuali soprattutto francesi e inglesi. I maggiori teorici del razzismo sorgono appunto nelle grandi potenze imperiali quali la Francia e l’Inghilterra (oltre che negli Stati Uniti[1]). A ciò si accompagnano alcuni fenomeni, spesso interpretati anch’essi come segno di modernità progressiva: la diffusione dell’istruzione pubblica, una legislazione sociale volta a proteggere anche i ceti più deboli, l’estensione crescente del diritto di voto, auspicato anche per le donne. Di fronte a questi processi alcuni riflettono in senso contrario, scorgendovi il segno di un’inevitabile decadenza, verso il baratro di una dissoluzione inevitabile. In questo quadro comincia a essere posta la domanda se ciò rappresenti un reale progresso oppure sia solo lo stadio terminale di una malattia che ha colpito l’Europa. Chi più radicalmente si pose questo interrogativo fu appunto Nietzsche. Con il trascorrere degli anni la sensazione di un pericolo imminente si fece più acuta. Questa idea di una dissoluzione della civiltà europea alla fine del XIX secolo e nel Novecento – soprattutto dopo la prima guerra mondiale – era dunque molto diffusa.
Certo tra tutti gli autori che in qualche modo la segnalarono, spicca Oswald Spengler con la sua prognosi della storia.
Noi uomini del secolo ventesimo, percorriamo visibilmente un cammino in discesa.
Questa la percezione che egli ebbe della nostra Europa (nella quale egli, come del resto Hitler, comprendeva anche gli Stati Uniti). Infatti, riteneva che nella vita degli individui e in quella della storia umana sia dato individuare gli stadi che devono essere attraversati. Una civiltà nasce, raggiunge la sua piena forma e… muore:
Giacché ogni civiltà ha una sua civilizzazione. […] La civilizzazione è l’inevitabile destino di una civiltà. […] le civilizzazioni sono gli stadi più esteriori ed artificiali di cui una specie umana superiore è capace. Esse rappresentano una fine, sono il divenuto che succede al divenire, la morte che segue alla vita, la fissità che segue all’evoluzione; vengono dopo il naturale ambiente e la fanciullezza dell’anima […] Esse rappresentano un termine: sempre raggiunto secondo una necessità interna da qualsiasi civiltà.[2]
Dinamica, creativa, espansiva e profonda, la civiltà si tramuta in civilizzazione allorché venga meno questa vitalità e si giunga ad una mera espansione di un modello, attraverso il dominio della tecnica e il trionfo di una visione esclusivamente pratica.
“La civilizzazione pura come processo storico consiste in una utilizzazione metodica di forme divenute inorganiche e morte.[3]”
Saremmo, dunque al capolinea. Qui, un’epoca di ferro si apre e sorgono uomini forti i quali, tuttavia, non sono il sintomo di una rinascita, ma quello di una fine imminente. Essi sorgono nell’ultimo intento di arrestare i processi che sempre si legano al tramonto. In tale ultimo periodo il mondo si oscura e la vita sembra essere assorbita dalle grandi metropoli. Invece di un popolo formato, legato alla terra, ecco un nuovo nomade, un parassita. Domina la scena del tramonto un uomo pratico, senza tradizione, ripreso in una massa informe e fluttuante: l’uomo irreligioso, intelligente, irrimediabilmente infecondo. La metropoli significa, per Spengler, il cosmopolitismo in luogo della patria, il freddo senso pratico in luogo del rispetto per ciò che è tradizionale e innato, l’irreligiosità scientista come dissoluzione del precedente fervore religioso. In questo clima ciò che è organico finisce col soggiacere all’organizzazione che sempre più si diffonde nelle epoche di civilizzazione. Un mondo artificiale pervade e avvelena il mondo naturale.[4]
A partire da tutto ciò è inevitabile che tutte le questioni divengono “questioni di denaro”. La politica rinuncia a guidare e diviene economia. La quantità trionfa sulla qualità. E in politica la democrazia su tutte le altre forme di governo. E la democrazia diviene subito assoluta, la forma più violenta di tirannide. I grandi uomini forti del tramonto sono tutti democratici: fascismo, nazismo, comunismo, tecnocrazia, sono tutte democrazie. Tentativi ultimi di governare processi irreversibili. Nell’uomo di una civiltà la forza è rivolta all’interno, in quello di una civilizzazione è rivolto all’esterno. Il passaggio alla civilizzazione, l’Europa moderna, l’avrebbe compiuto – sempre secondo Spengler – nel XIX secolo quando si pensava che “l’espansione è tutto[5]”. Stati Uniti e Unione Sovietica sono per Spengler (ma anche per Heidegger) le punte avanzate di questo processo di discesa:
E tanto negli Stati Uniti quanto nella Russia bolscevica stessa dittatura dell’opinione pubblica che, imposta dal partito o dalla società, abbraccia tutto quel che in occidente viene rimesso alla volontà del singolo: amoreggiamento e pratica confessionale, scarpe e cosmetici, balli e romanzi di moda, pensieri e cibi e divertimenti. Tutto uguale per tutti. Esiste un tipo – maschile, e sopra tutto femminile – di americano standard, normalizzato nei tratti psico-somatici e nel modo di vestire. Chi si ribella a questi moduli fissi, chi osa criticarli apertamente, incorre nella disistima generale, a New York come a Mosca. Infine vi si incontra un modello quasi russo del socialismo di Stato o del capitalismo di Stato, rappresentato dalla massa dei trusts, i quali in modo analogo alle dirigenze dell’economia in Russia, pianificano produzione e consumo fin nei dettagli. […] È la faustiana volontà di potenza, ma tradotta dal dominio di una crescita organica a quello di uno sviluppo meccanico e disanimato.[6]
Non deve stupire il fatto che Hitler leggesse la decadenza come un fenomeno mondiale, come pericolo mortale che in Francia, Russia e nelle democrazie in genere (o socialiste o rappresentative, non ha importanza) aveva raggiunto uno stadio forse irreversibile. Processo di decadenza che ai suoi occhi si apprestava a colpire il cuore dell’Europa: la Germania. Ma in Germania esso gli sembrava assumere forme estreme, dal momento che essa si era formata come baluardo della tradizione e della modernità insieme, soggetto di una rigenerazione mondiale che sarebbe dovuta passare attraverso l’elemento germanico.
Come dice espressamente lo stesso Spengler, i suoi maestri sono stati Goethe e Nietzsche. Dal primo deriverebbe la sua concezione della natura fino alla sua estensione alla storia delle civiltà. Da Nietzsche deriverebbe il suo modo di impostare i problemi. In un’epoca di tramonto all’uomo viene indicato un solo imperativo: quello biologico, di realizzare ciò che corrisponde alla fase ciclica in cui si trova a vivere. O non esser nulla, o essere ciò che un dato periodo storico esige, in ogni dominio, sotto specie di un destino. Restano uomini di un tempo, di un luogo, di una razza, di una tempra personale che vince o soccombe nella lotta.
Direi che questa lezione Hitler l’ha appresa pienamente, tranne per un particolare. Egli, come Mussolini (che pure lo interpretò da un altro punto di vista), apprezzò le tesi spengleriane, ma ritenne fosse possibile arrestare il tramonto, con un ritorno all’originario biologico. E come dice lo stesso Spengler l’uomo è naturalmente un predatore. Vale per lui l’unica regola che lo distingue da una preda, l’aggressività ferina, l’assalto. Impostare così i problemi voleva dire riconoscere a Nietzsche la funzione di maestro. Ma maestro, in un certo senso fu anche di Hitler.
Nietzsche e l’origine del nazionalsocialismo
Dunque, Nietzsche maestro! Secondo Augusto Del Noce nell’interpretazione della dialettica hegeliana di schiavo-padrone, Marx avrebbe scelto lo schiavo, Nietzsche il padrone. Il popolo di Signori (Herrenvolk) di Hitler sarebbe, allora, un tentativo di attualizzazione integrale del pensiero nietzschiano; un passaggio dalla diagnosi alla cura. Non è certamente questa l’unica lettura possibile dell’opera del filosofo tedesco, ma certo una lettura legittima. Legittima poiché si fonda sull’autentica mentalità dello stesso Nietzsche nella volontà di potenza; nella sua idea che, alla fine, non si dovesse attenuare la spinta originaria della volontà, come pensava Schopenhauer, ma semplicemente ci si dovesse spingere ad attraversarla per condurla così alle estreme sue conseguenze.
Mi rendo conto che l’interpretazione del filosofo tedesco merita ben altra visione delle cose. È evidente che egli scrisse seguendo un unico intendimento e che ogni scomposizione, frammentazione delle sue opere ed anche accaparramento del suo nome in epoche diverse per cause diverse, non è dare piena giustizia ai suoi sforzi ed anche alle sue sofferenze. Tuttavia credo giusto pormi qui dal punto di vista storico. Far scorgere come il suo pensiero abbia fatto maturare in alcuni la consapevolezza – anche tragicamente errata – che fosse possibile attuare il suo pensiero. Non sappiamo se gli avrebbe fatto piacere, anche se resta un ragionevole sospetto che sì gli avrebbe fatto piacere.
E questo va detto in netto contrasto con i tentativi di parte del pensiero moderno, di “salvare” Nietzsche separandolo dal nazionalsocialismo. In sostanza un Hitler pazzo avrebbe conquistato il potere in modo fraudolento, ingannato il popolo tedesco e trascinato il mondo nel gorgo di una spaventosa catastrofe. Morto Hitler, suicida nel suo bunker della Cancelleria del Reich, finito il nazionalsocialismo, terminato l’incubo, si potrebbe oggi tornare a un Nietzsche addomesticato, pronto per essere accaparrato da quelle accademie dalle quali e contro le quali egli si era staccato polemicamente nella sua randagia esperienza spirituale. Ma addomesticare il pensiero di Nietzsche sarebbe come pretendere di riconoscere nella vera tigre quella che, saltando il cerchio di fuoco al comando del suo ammaestratore, si mostra docile e servile, una diligente esecutrice di ordini, e non invece quella sempre pronta a ritrovare la propria natura selvaggia ed aggressiva. Alla fine una tigre non può essere addomesticata (e forse neppure un gatto può esserlo).
Questa la tesi che vorrei mostrare così come mi pare di rilevare negli scritti nietzschiani: prima di soccombere ogni animale si batte. L’Europa, animale ferito e indebolito, pensò di trovare in Nietzsche, attraverso Hitler, l’ultima disperata energia vitale per cercare la vita oltre l’abisso della decadenza e della dissoluzione[7]. Si deve cioè superare la banalizzazione del nazionalsocialismo che passa attraverso la dichiarazione della pazzia del suo fondatore, per intraprendere un cammino a partire dall’idea espressa da Ernst Nolte: c’è un nucleo nel nazionalsocialismo che si può comprendere razionalmente. Una ricognizione intorno alle sue radici culturali ci può dare informazioni preziose sullo stato attuale della malattia europea.
Questa allora, forse potrebbe rivelarsi una possibile chiave di lettura per uscire dall’assurda spiegazione del nazionalsocialismo come frutto della pazzia di Hitler. Infatti, mentre è possibile dire che il fascismo venne creato in gran parte da Mussolini, Hitler non soltanto non inventò il partito nazionalsocialista, ma vi aderì[8]. Salì su un treno in corsa non soltanto politicamente, ma soprattutto ideologicamente. E la locomotiva di questo treno è senz’altro rappresentata da Nietzsche. Anche l’incontro di Hitler con il darwinismo si comprende solo attraverso lui[9] e non soltanto Wagner e i miti germanici.[10] In sostanza penso che se ci pone la domanda: se il dopo Nietzsche debba essere caratterizzato anche dalla formazione di forze che diano al superuomo un senso che esso ancora non ha, si possa legittimamente concludere che Hitler ci abbia provato.
Hitler aveva visto con i propri occhi, e dall’interno ( i suoi anni di miseria relativa – aggiunge Fest), questa decadenza nella Vienna dell’anteguerra prima della crisi del 1914 e nella Monaco del dopoguerra. Questa debolezza esausta si incanalava nel marxismo e nell’utopia, ma mostrava gli inconfondibili sintomi della decomposizione del tessuto familiare e sociale. Nel suo Mein Kampf[11], egli afferma di essere stato profondamente impressionato dal clima di dissoluzione che ristagnava su Vienna e dal movimento marxista che impregnava la città nei suoi ambienti sociali elevati e borghesi, tanto da esclamare:
La dottrina semita del marxismo rifiuta il principio aristocratico della natura, e pone al posto dell’eterno diritto della forza e della potenza il numero , col suo morto peso. Essa rinnega nell’uomo il valore della persona, mette in dubbio l’importanza del popolo e della razza, togliendo così all’umanità le premesse della sua conservazione e della sua cultura.[12]
E ancora nel suo testamento nel Febbraio 1945:
Grazie alla religione marxista [i Russi] hanno tutto ciò che occorre per renderli pazienti. È stata loro promessa la felicità su questa terra (una caratteristica che distingue il marxismo dalla religione cristiana)… ma in avvenire. L’ebreo Mardocheo Marx, da quel buon israelita che era, aspettava la venuta del Messia. Egli inquadrò la concezione del Messia nel materialismo storico, asserendo che la felicità sulla terra è uno dei fattori di un processo evolutivo quasi senza fine […] l’umanità si lascia sempre ingannare da speciosi inganni di questo genere […] Il marxismo è una forza potentissima. Ma come giudicheremo il Cristianesimo, quest’altro rampollo del Giudaismo, il quale non vuole impegnarsi più in là della promessa della felicità ai credenti in un altro mondo? Credetemi, è incomparabilmente più forte.[13]
L’idea, cioè, di Marx come ultimo profeta ebreo, con il quale, più efficacemente che mai, il Giudaismo cercava il dominio del mondo. Un Giudaismo liberatosi di Dio che analogamente al capitalismo – ormai saldamente nelle sue mani – poteva esercitare il proprio dominio estendendolo alle masse.
L’ideale nietzschiano di un Europa infine unita nel segno di una nuova gerarchia alla cui guida dovrebbe essere chiamata una nuova aristocrazia (non certo l’antica!) condusse Hitler all’odio verso coloro che dovevano considerarsi gli agenti della dissoluzione. Quelli che per Nietzsche erano gli “scarti” che si ha il dovere di distruggere senza pietà.[14]
Perché quando una generazione soffre di errori che riconosce e ammette, e tuttavia, come avviene nell’odierno mondo borghese, si contenta di dichiarare che non c’è nulla da fare per ripararli, è segno che una società così fatta è destinata a perire. Ma è caratteristica del nostro mondo borghese appunto questo, che non può negare la propria fragilità. Esso deve ammettere che molte cose sono putride e cattive, ma non sa ancora risolversi ad insorgere contro il male, ad adunare con aspra energia la forza di un popolo e a stornare così il pericolo.[15]
Questo mondo decadente della borghesia europea sarebbe dunque pronto alla schiavitù, e contro tutto ciò egli dirà che si deve lottare senza alcuna pietà. Ma non con una mentalità reazionaria, bensì con un mutamento totale della mentalità passata, complice nello stesso processo di decadenza. Una nuova fede politica i cui principi fondanti cercano la loro ispirazione anche, e direi per certi versi sopra tutto, in Nietzsche. Nel senso che per Hitler il processo dopo Nietzsche deve essere caratterizzato nella storia dalla formazione di uomini superiori, di un popolo di signori, di forze che diano alla morte di Dio un senso che essa ancora non aveva, che le potessero conferire una essenza, una consistenza visibile. Sarebbe un errore vedere in Hitler un nazionalista tedesco. La razza è un concetto che supera la nazione; come dice Nolte: il razzismo diluisce la nazione. E il razzismo nazionalsocialista vede nel Giudaismo (anche se in verità l’obiettivo finale era l’annientamento del Cristianesimo) l’antirazza, una minaccia per tutte le razze.
Ora per Nietzsche la decadenza è una vera malattia che ha la sua ben determinata causa. Infatti, la mentalità dello schiavo viene introdotta nel mondo dal Giudaismo e dal Cristianesimo con la loro “invenzione”: il peccato[16].
Peccato, come viene sentito oggi ovunque domini o abbia dominato il Cristianesimo, è un sentimento giudaico, un’invenzione giudaica, e sotto tale riguardo questa seconda fase della morale cristiana ha tentato di giudaizzare tutto il mondo. Fino a che punto vi sia riuscita in Europa, si vede con grandissima esattezza considerando quanto l’antichità greca – un mondo privo del senso del peccato – sia ancor lontana dal nostro sentire, nonostante tutta la buona volontà di intere generazioni e di uomini di vaglia per ottenere un avvicinamento e un’assimilazione. «Dio è misericordioso soltanto con colui che si pente». Una tale frase avrebbe mosso il riso e il dispetto di un greco; egli direbbe: «questo è un sentire da schiavo».”[17]
E questa schiavitù coinciderebbe con il rovesciamento di ogni valore vitale ed originario:
Gli Ebrei con una formidabile logica hanno osato il rovesciamento di tutti i valori (buono – nobile – felice – amato da Dio), e hanno con uno spaventevole accanimento conservato questo rovesciamento provocato dall’odio (l’odio dell’impotenza), affermando: ‘Soltanto i miserabili sono i buoni; soltanto i poveri, gli impotenti, i piccini sono buoni; coloro che soffrono, i bisognosi, gli ammalati, i deformi sono gli uomini pii, gli unici benedetti da Dio, ad essi solamente apparterrà la beatitudine – ed invece voi, che siete nobili e potenti, sarete per tutta l’eternità i cattivi, i crudeli, gli avidi, gli insaziabili, gli empi, e in eterno resterete i riprovati, i maledetti, i dannati…’ Si sa bene chi ha raccolto l’eredità di questa inversione giudaica dei valori[il Cristianesimo, in modo particolare San Paolo, n.d.r.].[18]
Ma come agisce lo schiavo, quale la differente mentalità del padrone?
La morale servile ha sempre e innanzitutto bisogno, per nascere d’un mondo che le sia opposto ed esteriore, ha bisogno per parlare in termini di fisiologia, d’uno stimolo esterno per agire, e la sua azione è essenzialmente una reazione. Il contrario avviene quando la valutazione è fatta dai padroni: allora si compie e cresce spontaneamente, non cerca il suo opposto che per affermare se stessa con gratitudine e gioia ancor maggiore… tutto pervaso di vita e di passione, tutto positivo, afferma ‘noi nobili, noi buoni, noi felici. [19]
Il signore sa della propria superiorità e non vi rinuncia:
La morale di dominatori è estranea e penosa per il gusto d’oggi nelle severità del suo principio, secondo cui si hanno doveri soltanto verso i propri uguali, mentre verso esseri di rango inferiore, verso stranieri di qualsiasi specie, è lecito comportarsi come si preferisce, o come detta il cuore e, in ogni caso, al di là del bene e del male.[20]
Un tipo superiore deve opporsi alla decadenza che ha luogo quando domini lo schiavo.
Questo tipo di superiore valore è già esistito abbastanza spesso: come caso fortunato, però, come eccezione, mai come qualcosa di voluto. E’ stato, anzi, particolarmente temuto, è stato fino ad oggi quasi la cosa terribile; e, prendendo le mosse dal timore è stato voluto, allevato, raggiunto il tipo opposto: l’animale domestico, l’animale d’armento, l’uomo come animale malato – il cristiano.[21]
Sono stati enfatizzati alcuni passi del pensatore tedesco nei quali gli Ebrei vengono addirittura esaltati, ma non ci si deve fare illusioni. Qui si può vedere la decisione di Hitler di attuare il passaggio dal “caso fortunato” a qualcosa di voluto. Ovviamente “organizzando” prima la Germania, poi il mondo (Heute marschirt in Deutschland, morgens in der Welt!). E tutto il percorso ha le caratteristiche dell’esplosione di un impeto disperato, che Fest felicemente individua nel nazionalsocialismo: “L’organizzazione del caos.” A mio avviso proprio in ciò sta la dipendenza di Hitler da Nietzsche. Quel che in Spengler è visto come segno di un’epoca di decadenza (il caos contro l’organico), viene invece esasperato per ripercorrere il cammino di una rinascita dell’elemento “sano” contro ciò che è malato e inferiore. E il vero nemico è appunto il cristiano: quella contro gli Ebrei non è altro che il gradino per giungere al cristianesimo. Di qui il favore per quei pastori luterani che sceglievano l’eresia marcionita, o per i Catari. Di qui le direttive alla Hitler Jugend inviata nei gruppi parrocchiali anche cattolici per introdurvi una mentalità ultimamente atea.
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NOTE
[1] Gli studi di Raimondo Luraghi sulla guerra civile americana hanno ben messo in rilievo come la società schiavista del Sud non fosse razzista, al contrario il razzismo emerse dopo la guerra e la sconfitta fra gli strati inferiori della popolazione bianca del Sud e nelle grandi città del Nord che isolarono i neri negli sterminati ghetti delle grandi città industriali.
[2] O. Spengler, Il tramonto dell’occidente, Longanesi, Milano 1957 p. 77.
[3] Ibidem, p. 78.
[4] L’organizzazione e la tecnica diventano la religione dei tempi ultimi di una civilizzazione: “la fede nella tecnica diviene una religione materialistica: essa è eterna come il Padre, redime l’umanità come il Figlio, ci illumina come lo Spirito Santo.” (Spengler in Ascesa e declino della civiltà delle macchine, 1931). Illuminanti, per la comprensione della estensione mondiale, globale, della tecnica e del modello di cui Spengler parla nel 1931, sono le pagine di un romanzo celebre di: Il padrone del mondo dove l’organizzazione globale dell’umanità conduce al suo spegnimento. E’ vero che questo mondo – che era per Del Noce il mondo dell’irreligione e, quindi, il mondo finale che ha cancellato ogni residuo, pur utopico, di religione – potrebbe riuscire vittorioso sul Cristianesimo estendendo alle masse la notizia della morte di Dio di cui Nietzsche parla ne La Gaia Scienza, ma questa vittoria sarà anche la sua fine. L’organizzazione raggiunge il suo culmine come organizzazione della morte. Quindi senz’altro ha ragione E. Severino quando afferma: “Nella situazione attuale della cultura, l’unico pericolo per il Cristianesimo è che l’invenzione scientifica riesca effettivamente a produrre un regno dove l’uomo si sia liberato alla morte, dal dolore, dal rimorso, dall’infelicità, dalla bruttezza e abbia raggiunto la gioia”, cioè abbia perduto la propria umanità e raggiunto più la noia che la gioia. Ciò significa che la lotta ultima sarà contro il dominio che la mentalità scientista, tecnocratica ed economicistica estesa al mondo intero; cioè contro il positivismo.
[5] Affermazione questa di Cecil Rhodes. Del resto non si vive nella tensione continua e maniacale dell’espansione ad ogni costo? Questo espansionismo è sempre micidiale: è essenzialmente guerra, estensione di un modello che chiuso nel suo ambito originario non è più vitale. E questo anche se si parla di “espansione economica” e si ragiona di politica soltanto nei termini di PIL.
[6] O. Spengler, Anni della decisione; le guerre mondiali e le potenze mondiali.
[7] Ovviamente, in queste pagine, ci concentreremo sul rapporto Nietzsche-Hitler, senza trascurare gli apporti che al nazismo giunsero da Spengler, Heidegger e da tutta una tradizione che nella filosofia trovò i propri esiti necessari negli interstizi dei quali è pur sempre aperto lo spazio per una certa libertà. Libertà magari minima, ma sempre tale da consentire un giudizio.
[8] Infatti Mussolini fonda i fasci di combattimento e senza di lui non avrebbe senso parlare di fascismo, Hitler aderisce al partito della svastica quando esso è già un soggetto politico nella Monaco degli anni ’20.
[9] Sarebbe un errore trascurare l’influenza che il positivismo e la scienza positivista esercitarono su Nietzsche. Anche le sue polemiche nei riguardi del positivismo stesso, e del positivismo tedesco in particolare, non devono oscurare la sua entusiasta adesione.
[10] Un giorno, a tavola, Hitler, schernendolo, disse che il povero Himmler esultava ogni qual volta negli scavi – che andava incoraggiando in tutto il territorio del Reich – un’antica stoviglia germanica di un secolo d. C., nascondendosi che in quello stesso periodo fiorivano civiltà straordinarie come Roma e la Grecia!
[11] Dato per scontato che Hitler fosse pazzo, si trascura la lettura del Mein Kampf. Joachim Fest afferma che il Mein Kampf fu uno dei libri più venduti e diffusi nel mondo, ma che quasi nessuno lo lesse.
[12] A. Hitler, Mein Leben, Bompiani, Milano 1941, pp. 70-71.
[13] A. Hitler, Il testamento, Mondatori, Milano 1961, pp. 121-122.
[14] Nei Frammenti postumi di Nietzsche si legge: “Contro lo scarto e il rifiuto della vita c’è un solo dovere, distruggere, essere qui pietosi, voler qui conservare a tutti i costi , sarebbe la prova suprema dell’immoralità, la vera e propria contronatura, la inimicizia mortale contro la vita stessa.” Ed Hitler nel proclama alle truppe che si apprestavano a lanciarsi all’attacco dell’Unione Sovietica ordina d’essere crudeli e spietati come un dovere umano, per concludere presto la guerra annientando un nemico mortale.
[15] A. Hitler, Mein Kampf, Bompiani, Milano 1941 pp. 46-47.
[16] L’idea della colpa, del peccato è in realtà presente nella visione della realtà umana fin dai primordi. Nei miti delle origini sumeri e proprio in quella mentalità che a Nietzsche sembra immune da ogni concezione del peccato. Infatti in Nell’Iliade, al cop. VI, fa la sua comparsa la colpa gagliarda e le preghiere inviate da Zeus all’uomo per porvi rimedio.
[17] F. Nietzsche, in La gaia scienza, Mondatori, Milano 1971 p. 130.
[18] F. Nietzsche, in Genealogia della morale.
[19] Ibidem
[20] F. Nietzsche, in Al di là del bene e del male,
[21] F. Nietzsche, in L’Anticristo, Adelphi, Milano 1977, p. 5. Dal canto mio preferirei più accetabile un titolo diverso: L’Anticristiano.
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Autore: Prof. Aldo Rizza
Titolo: La Malattia dell’Europa, parte 3
Data di pubblicazione: 30 Marzo 2021