“LA DEMOCRAZIA: UNA QUESTIONE APERTA” di Aldo Rizza // Parte 2

Proseguendo nell’attuazione dei propri fini statutari, http://www.rinascimentoeuropeo.org/statuto/Statuto.pdf, RINASCIMENTO EUROPEO ha creato, sul proprio sito web www.rinascimentoeuropeo.org, uno spazio interamente destinato a raccogliere scritti e riflessioni su temi d’interesse generale che rientrino nelle finalità dell’Associazione.
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Per una critica della democrazia
Unito oggi, forse impropriamente, al termine di liberalesimo, abbiamo quello di democrazia. Si parla, infatti, di regimi liberal-democratici. Più venerando del primo, ma più soggetto a fraintendimenti ed incidenti di percorso (a tal punto che democratici si sono chiamati anche regimi come quello comunista-leninista, o quello stalinista, o quello maoista, etc.). Comunque sia, nel tempo moderno prevale il concetto di democrazia assoluta, se non proprio quello di democrazia- totalitaria.
S. Agostino, con acutezza, osservava che non esiste lo Stato (più precisamente egli parlava di res publica, poiché il termine Stato, e tutto ciò che esso significa, è creazione moderna) se non esiste l’autentico interesse del popolo. “Che cos’è il popolo ?” si chiedeva: “L’unione della moltitudine associata nel consenso del diritto.”
In sostanza non può esistere uno Stato senza giustizia, poiché dove manca la giustizia – la vera giustizia – manca il diritto ed anche il consenso. Non può esservi giustizia nelle cattive costituzioni umane; del resto gli stessi uomini affermano che è giusto quello che scaturisce dalla fonte della giustizia e che è falsa l’opinione di coloro che affermano erroneamente che giustizia è il diritto del più forte.
Ciò che dice Agostino riecheggia l’antica lezione di Platone ed Aristotele.
Il primo, rispondendo alla tesi sofistica secondo cui :”il giusto non è altro che l’utile di chi è superiore.”, afferma che come la medicina e l’arte del cavallerizzo sono finalizzate non all’utile della medicina o della cavallerizza, ma rispettivamente a quello del corpo e dei cavalli, così nessun altro e in nessun posto di comando, in quanto è capo, cerca e prescrive il proprio utile, ma quello del subordinato per cui egli stesso lavora. Quando ciò non avvenisse non si vivrebbe più in una città ordinata e si andrebbe verso la disfatta rappresentata dalla tirannide.
Aristotele, dal canto suo, distingue con cura l’uomo politico dal padrone [1] e dall’amministratore. Entrambi, però – e perciò danno enorme importanza all’educazione – hanno ben chiaro che la città sono i cittadini. Ed hanno anche ben chiaro il carattere di imperfezione della natura umana. Allora, se i cittadini saranno giusti, anche la città lo sarà. Ma non è affatto semplice educare alla giustizia (che non necessariamente coincide con la legalità o la semplice osservanza delle regole).
S. Agostino, in accordo con tutta la tradizione precedente, migliorandola – almeno così lui intendeva – con la novità del fatto cristiano, afferma che la città nella quale non c’è subordinazione a Dio [2] (nel senso di ordine della vita a Lui), l’anima non riesce a comandare il corpo e la ragione ai vizi. In una parola la città rovina quando ogni singolo non sia giusto e non siano così giusti la città e il popolo: “Dove dunque, non c’è una tale giustizia, neppure vi è una società di uomini uniti dal consenso del diritto e dalla comunanza del bene.” La città degli uomini, è dunque sempre perfettibile e non vi è alchimia legale, capace di fornire dall’esterno quella giustizia che deve abitare nei cuori e nelle menti. Non esiste allora, evidentemente, alcun regime politico che possa dirsi perfetto.
Secondo la formulazione pessimistica di Machiavelli e di Hobbes, vista l’irrimediabile malvagità umana, è necessaria una formula politica che con il terrore e l’astuzia belluine, costringa gli uomini a vivere insieme e in pace. Lo Stato troverebbe così, la sua ultima ragion d’essere nell’originaria ed irrimediabile malvagità dell’uomo.
Ci troviamo, quindi, di fronte, alle due grandi tradizioni politiche dell’Europa (poiché, sin dal tempo di Erodoto, pare che l’Oriente abbia scelto decisamente e definitivamente, per il dispotismo). Da un lato coloro che considerano naturale il desiderio dell’uomo di vivere con gli altri e naturale, quindi, la società umana; dall’altro coloro che ritengono necessario lo Stato come costruzione artificiale da opporre all’atomismo caotico e bestiale cui perviene la naturale malvagità e selvatichezza dell’uomo. In realtà, la posizione “moderna” della politica ha scelto decisamente Machiavelli ed Hobbes e poggia su un inequivocabile ritorno alla sofistica relativistica antica, fino all’esito nichilistico che viviamo in questo secolo. [3]
Infatti, oggi, è molto diffusa la mentalità secondo cui non esisterebbe nessun criterio oggettivo per distinguere ciò che è bene o ciò che è male, nella vita della persona o della città. Tutta la vicenda associata dell’uomo si ridurrebbe solo alle regole che si riescono ad imporre dall’esterno. Sei buono, e buona è la città, si dice, se osservi le regole. Ma le regole sono buone? O è indifferente che lo siano o no, bastando il fatto che vi siano e che vi sia la forza per farle osservare anche, semplicemente, con la forza che viene dal numero? [4]
Il concetto di libertà che sembra essersi affermato sembrerebbe semplicemente rivolto a sollevare l’uomo dalle ingabbianti categorie del bello, del buono e del giusto. Ma cosa diviene la libertà quando non sia mantenuta la radice che la lega intimamente al senso religioso del passato, della continuità della vita morale nel volgersi delle generazioni? E’ questa la caratteristica condizione in cui vive la società opulenta o permissiva del cosiddetto “occidente” (occidente non vuol forse dire “terra del tramonto?); condizione necessaria ed unica per molti, sulla via della vera ed ultima democrazia.
Essa si fonderebbe sulla necessità di combattere fin la memoria dell’eticità dello Stato vista come responsabile del totalitarismo. Questa cancellazione – sostiene Del Noce – condurrebbe a vedere nelle norme dello Stato semplici regole sociologiche di coesistenza, valutabili non secondo astratti modelli, ma nella misura in cui agevolano il libero sviluppo e la libera espressione della personalità di ognuno. Riguardo alla “originale realizzazione di sé”, questa concezione si afferma come neutrale rispetto ai valori o ideali.
In realtà parrebbe proprio che l’elogio e la difesa della democrazia non si possano fare a partire dalle dimostrazioni antiche (che del resto ponevano la democrazia, anche se come ultima, tra le tre forme buone di governo, dopo la monarchia e l’aristocrazia); poiché oggi pare difficile poter distinguere in base ad un qualsiasi criterio di valore in cosa differiscano – nel concreto tessuto della storia – monarchia e tirannide, aristocrazia e oligarchia, democrazia e demagogia.
Alcuni sostengono che un tempo, quando la democrazia era soltanto un ideale, era abbastanza agevole provare a definirla. Ne uscivano però definizioni statiche che irrimediabilmente contrastano con ciò che la democrazia si rivela essere quando la si comincia a vivere.
Soprattutto dopo lo scacco storico del marxismo-leninismo – che aveva posto nella storia la propria verifica – e degli altri totalitarismi apocalittici e millenaristici del nostro secolo (fascismo e nazionalsocialismo, marxismo cambogiano e maoista ecc), non si deve cadere nell’errore di considerare concluso nel migliore dei modi il cammino della storia. Il marxismo-leninismo è stato sconfitto… dal marxismo-leninismo e non certo dalla superiore bontà del sistema liberal- democratico dell’occidente. Quest’ultimo poi, anch’esso, rischia il collasso proprio nel momento in cui pensava di poter celebrare il suo trionfo.
Per molto tempo si è creduto che la democrazia rappresentativa fosse il miglior sistema di governo da opporre al marxismo-leninismo e che, al peggio, essa fosse minacciata – a causa della pressione esercitata dall’avversario – da un’involuzione autoritaria o da un’evoluzione tecnocratica.
Ad ogni modo si era indotti a credere che fosse la miglior forma di governo possibile per una società sviluppata (dove sviluppo stava per incremento della tecnica ed estensione del mercato). Fino a pochi decenni fa, gli Stati uniti erano l’unico paese in cui l’alto grado di sviluppo dell’economia permettesse alla democrazia d’essere considerata come un regime di gestione della prosperità, controllato dalla concorrenza dei vari gruppi, egualmente interessati al suo mantenimento. Ora, pur senza giungere al livello degli U.S.A., il progredire della produzione tende ad avvicinare molti paesi alla situazione esistente oltre Atlantico. Ne sorge una mentalità che induce a concepire la democrazia come l’amministrazione del benessere (salvo poi ad entrare in crisi profonda quando il benessere comincia a scomparire come nel caso dell’Europa di oggi tutta tesa a difendere il livello raggiunto, ma incapace di creare nuova ricchezza). In sostanza ci troveremmo oggi di fronte ad una posizione inedita rispetto alle definizioni classiche di democrazia.
Le definizioni classiche della democrazia e delle sue possibili degenerazioni hanno dovuto essere corrette dall’esperienza del pensiero politico moderno, proprio a causa di ciò che ha significato per il pensiero e la prassi politica la mentalità cosiddetta moderna. Non si era pensato al duplice fatto che se l’origine della democrazia liberale era da ricercarsi in quello stesso pensiero moderno che aveva generato i totalitarismi, allora la stessa dissoluzione ed incapacità di tenuta che aveva caratterizzato questi ultimi, avrebbe comportato lo sgretolamento anche della democrazia in un inedito tipo di tirannide.
Ci aveva pensato Tocqueville – per il quale una servitù facile, ordinata e tranquilla potrebbe conciliarsi con l’esteriore forma della libertà e con la più rigorosa sovranità popolare – quando si era chiesto “Quale tipo di dispotismo debbono paventare le nazioni democratiche?” ed era giunto a dire : “…la specie di oppressione che minaccia i popoli democratici non assomiglierà a nessuna di quelle che l’hanno preceduta nel mondo; i nostri contemporanei non possono trovarne nessun antecedente nei loro ricordi. Cerco inutilmente un’espressione che renda esattamente l’idea che me ne faccio e la contenga; le vecchie parole come dispotismo e tirannide non sono più adeguate. La cosa è nuova, bisogna dunque cercare di definirla, visto che non posso darle un nome. Immagino sotto quali nuovi aspetti il dispotismo potrebbe prodursi nel mondo: vedo una folla innumerevole di uomini simili ed uguali che non fanno che ruotare su se stessi, per procurarsi piccoli e volgari piaceri con cui saziano il loro animo. Ciascuno di questi uomini vive per conto suo ed è come estraneo al destino di tutti gli altri: i figli e gli amici costituiscono per lui tutta la razza umana; quanto al resto dei concittadini, egli vive al loro fianco ma non li vede; li tocca ma non li sente; non esiste che in sé stesso e per sé stesso, e se ancora possiede una famiglia, si può dire per lo meno che non ha più patria. Al di sopra di costoro si erge un potere immenso e tutelare, che si incarica da solo di assicurare loro il godimento dei beni e di vegliare sulla loro sorte. E’ assoluto, minuzioso, sistematico, previdente e mite [5].” Non è difficile intravedere qui i tratti familiari dei grandi Stati, delle grandi democrazie contemporanee. A differenza della tradizionale autorità paterna, questo sterminato potere che governa su milioni e milioni di uomini, non ha come scopo quello di farli crescere, ma quello di farli permanere in una condizione simile a quella dell’infanzia “…è contento che i cittadini si svaghino, purché non pensino che a svagarsi. Lavora volentieri alla loro felicità, ma vuole esserne l’unico agente ed il solo arbitro; provvede alla loro sicurezza, prevede e garantisce i loro bisogni, facilita i loro piaceri, guida i loro affari principali, dirige la loro industria, regola le loro successioni, spartisce le loro eredità; perché non dovrebbe levar loro totalmente il fastidio di pensare e la fatica di vivere ?” Un potere siffatto stende su tutta la società una rete inestricabile di piccole regole complicate, minuziose e uniformi, si avvale di una numerosa burocrazia, attraverso la quale nessuno – soprattutto i più intelligenti ed energici – possa emergere dall’anonimato della massa. La sterminata democrazia moderna: “non spezza la volontà, la fiacca, la piega e la domina; raramente obbliga all’azione, ma si oppone continuamente al fatto che si agisca; non distrugge, impedisce di nascere; non tiranneggia, ostacola, comprime, spegne, inebetisce e riduce infine ogni nazione a non essere più che un gregge timido e industrioso, di cui il governo è il pastore.”
Questo della democrazia come potere unico ed onnipotente – lo Stato assoluto democratico eletto dai cittadini – centralizzato, ma con il massimo di sovranità popolare, consente di far uscire a scadenze determinate i cittadini dalla condizione di servitù incosciente nella quale si trovano, per designare il nuovo padrone, per poi farli rientrare nella condizione normale. Si tratta di una sorta di dispotismo amministrativo nel quale è mantenuta la sovranità popolare in modo da soddisfare insieme il bisogno d’essere guidati e la voglia di restare liberi.
Hanno ragione coloro che, dietro il congedo delle ideologie e la critica dei totalitarismi, scorgono un totalitarismo identico, ma assai più aggiornato, assai più capace di dominio assoluto di quel che i modelli passati – Stalin e Hitler inclusi – non fossero.
Ancora di più, giustamente, questo totalitarismo sembra coincidere con l’avvento, di un superpartito tecnocratico che attraversa i partiti tradizionali, che possiede le sorgenti di informazione, che cura la propria apologia attraverso la casta degli intellettuali e che è equamente ripartito secondo le varie posizioni culturali e politiche dai cattolici ai neocomunisti.
La democrazia governante [6], nata dalle tensioni interne al gruppo nazionale, ha avuto per conseguenza di istituzionalizzare i conflitti, facendo dei meccanismi costituzionali gli strumenti della lotta per il potere. Le elezioni esplicitano una contrapposizione di classi, i parlamenti sono arene in cui si misurano forze in lotta, il governo si batte per la propria conservazione, l’opposizione mira a rovesciarlo e i partiti – che sono gli animatori di tutte queste battaglie – elaborano tutta la loro strategia in funzione della conquista o della conservazione del potere. Questa atmosfera di mobilitazione permanente è favorevole allo sviluppo della società industriale prima e tecnologica poi. Del resto esse si sono alimentate con le guerre e le guerre mondiali. Quando la crescita economica, l’incremento del reddito nazionale nonché il conseguente miglioramento del tenore di vita sono considerate finalità supreme dell’organizzazione della vita collettiva, la politica nel senso stretto del termine, con le rivalità personali fra i suoi protagonisti, i suoi programmi demagogici e il suo verbalismo, appare come un’attività futile e pericolosa.
Così, dopo la presunta definitiva sconfitta del marxismo [7], la società opulenta, dove la democrazia coincide con il mercato ed appare insieme lo strumento per raggiungere e conservare (e per conservare si deve accrescere) il benessere, raggiunge i massimi livelli di alienazione (ciò che noi individuiamo nell’uomo ad una dimensione) e di omologazione.
Una situazione, dunque, nella quale può dominare soltanto un totalitarismo fortissimo; e il fatto che esso abbia tutte le caratteristiche della democrazia rappresentativa non ne attenua affatto la carica di assolutezza che lo nutre.
Ma ancor più profondamente, il dominio di questa nuova e più micidiale forma di potere, avrebbe coinciso con il suo tramonto, il suo suicidio.
Non è quindi senza ragione che è importante avanzare una seria critica alla democrazia rappresentativa attuale (che del resto appare come l’unica forma possibile di democrazia nelle grandi società di massa e dei grandi numeri).
Che i sostenitori della moderna democrazia rappresentativa – indiretta – non siano riusciti a darci ragioni sufficienti per ritenerla preferibile ad ogni altra forma di governo è ormai chiaro a tal punto che sembrano molto più diffuse le critiche alla democrazia, di quanto non lo siano le apologie [8]. Famosa l’affermazione di J. Madison:
“Le democrazie hanno sempre offerto spettacoli di turbolenza e di dissidi; si sono sempre dimostrate in contrasto con ogni forma di garanzia della persona o delle cose; e hanno vissuto una vita che è stata tanto breve, quanto violenta ne è stata la morte.”
Notissima anche la critica del già citato Tocqueville, per il quale mentre l’aristocrazia ha cementato i membri della società:
“… non solo la democrazia fa dimenticare all’uomo i suoi antenati, ma gli nasconde i suoi discendenti e lo separa dai suoi contemporanei; lo riporta per sempre a se stesso soltanto e minaccia alla fine di confinarlo interamente nella solitudine del suo cuore.”
In sostanza la critica alla democrazia denuncia la sua cieca opposizione (come solo il numero può essere cieco) ad ogni tradizione [9], come anche ad ogni tensione perfezionatrice verso il futuro: l’uomo massa della democrazia sembra non avere né passato, né futuro, vive nell’insignificanza e, quindi, nella solitudine: dal punto di vista filosofico l’epoca che gli si attaglia è un’epoca di solipsismo nichilista.
D’altra parte, tuttavia, portando le cose alle loro estreme conseguenze e opponendo così democrazia ad autocrazia, possiamo giungere a delineare tre prospettive fondamentali che renderebbero preferibile la democrazia:
a) una etica;
b) una politica;
c) una utilitaristica.
La prospettiva etica, consiste essenzialmente nel fatto che, dal momento che uno è tanto più libero quanto più non obbedisce agli altri [10] che a se stesso, il metodo democratico risulterebbe migliore nella misura in cui, nel suo ambito, si realizzerebbe la libertà come “obbedienza – dice Rousseau – alle leggi che ciascuno si è prescritte.” Il fondamento della democrazia starebbe nella libertà come autonomia.
La seconda prospettiva (b), che renderebbe preferibile la democrazia, e cioè la prospettiva politica, consisterebbe essenzialmente nel fatto che la democrazia sarebbe il massimo rimedio all’abuso di potere.
La terza prospettiva (c), quella che Bobbio ha chiamato utilitaristica, consisterebbe essenzialmente nel fatto che si giudica che i migliori interpreti dell’interesse collettivo sarebbero gli stessi singoli interessati.
Ma a ben pensarci tutte e tre le prospettive sono per lo meno problematiche, se non addirittura rovesciabili in altrettante negazioni. Quella etica va incontro a gravi inconvenienti una volta che si voglia ancorare a qualcosa di stabile ed oggettivo l’autonomia dell’agire umano (che, tra l’altro, vediamo così spesso soggetto a molte gravi limitazioni necessarie). Fu questa una delle principali preoccupazioni di E. Kant che, tra l’altro, era un grande ammiratore dell'”illuminato” Federico il Grande di Prussia il quale, dal canto suo, era poco democratico e molto autocrate.
Dobbiamo riconoscere che il tentativo (sostanzialmente liberale, non certo democratico) di Kant, oggi, dev’essere considerato fallito e che la cieca fiducia pelagiana di Rousseau si è andata sgretolando in lui stesso, tanto che i suoi epigoni furono forse tra i maggiori sostenitori del più duro totalitarismo. Dura autocrazia, insomma, che per essere rivoluzionaria [11] non era meno autocratica.
E così, a meno di non andare a cercare il fondamento del valore della libertà dell’uomo in una qualche qualità metafisica – cosa che ripugna al mondo contemporaneo, ma che alla fine resta ancora una strada più ragionevole di molte altre, che per essere antimetafisiche non sono meno insensate – non resta che desolatamente riconoscere che la prospettiva etica, che renderebbe preferibile la democrazia, postula un’autonomia diffusa secondo quanti sono i soggetti di una società. Cosa questa che se accettata fino in fondo condurrebbe a conseguenze incontrollabili, tali da consigliare un ritorno al tenebroso progetto assolutistico di Hobbes.
Del resto ritengo che proprio in quei dintorni l’odierna mentalità prevalente sia sempre rimasta con un’ammirevole fedeltà – forse necessaria, dal momento che non riesce ad accettare di andare oltre e cercare sul piano metafisico ciò che, chi è rimasto al di qua, non ha saputo suggerirgli.
Così verrebbe fuori che la moderna democrazia, se non vuol essere nient’altro che un’autocrazia
mascherata, deve rivolgersi a valori profondi ed immutabili [12], presenti – coltivati e preservati – in ciascuno; valori la cui consistenza va ricercata sul piano metafisico e la cui realizzazione nella storia mostra tutta l’inadeguatezza di cui è capace la nostra natura umana, buona bensì a cercare il bene e a comprenderlo, ma mancante per antica ferita.
Non è il caso di commentare estesamente la seconda prospettiva (b), quella politica: infatti, la democrazia non è stata mai un rimedio alla corruzione e la corruzione si porta dietro la tirannide che per essere dei più, cioè democratica, non è meno oppressiva e intollerabile di quella di uno solo.
Per quanto riguarda la ragione utilitaristica (c), che consiglierebbe il metodo democratico, come il più adatto per realizzare l’interesse collettivo, lasciando esso libero il campo per stabilire cosa veramente è interesse di ciascuno all’interpretazione dei singoli, ci sarebbero esempi classici (quello del malato e del medico, quello del comandante e dell’equipaggio, ecc.), sufficienti per metterla in dubbio. Preferisco tuttavia, ricorrere ad Ugo Spirito che in un suo interessante volume del 1963, ha esposto una delle più acute e coerenti critiche alla democrazia che siano mai comparse nel panorama degli studi italiani.
Nella democrazia rappresentativa (non parliamo qui di democrazia diretta, del resto non ne parlano più neppure in Svizzera o a San Marino), il conformismo democratico rappresenta, come in ogni regime, la più caratteristica evoluzione.
Ognuno infatti, oggi, si dichiara democratico e lo è in un certo senso, ma mai completamente. Viviamo infatti, un periodo di estrema politicizzazione della società (che non vuol dire affatto vi sia un diffuso interesse per la politica) che si porta dietro l’estrema diffusione, anche a volte ridicola, dell’aggettivo democratico.
Ora, sono detti democratici uno spettacolo, un ristorante, un mezzo di trasporto ed anche certi metodi di insegnamento, certe tecniche di distribuzione dei prodotti, certe tecniche musicali ecc. Ciò che si sarebbe, in altri momenti, considerato neutrale, diviene democratico; per contrapposizione, poi, ciò che si oppone a queste patenti democratiche è subito detto antidemocratico (passaggio non necessario, tuttavia molto frequente e quasi sempre efficace nel senso di isolare immediatamente coloro che ancora intendono pensare in libertà).
Dall’altezza della teoria politica, l’idea democratica è scesa nella prosaicità dell’universo più quotidiano per servire come termine di riferimento per situazioni o comportamenti che non hanno nulla a che fare con l’organizzazione e il funzionamento dei poteri pubblici.
Ciò implica un altro passo non necessario, ma molto diffuso, secondo cui ciò che vuole la maggioranza, ciò che la maggioranza sceglie, l’interesse della maggioranza, è il Bene. In questo senso possiamo dire che la democrazia, a volte, si realizza come sistema soldato più che trasformare in soldati i propri cittadini. Nella mentalità comune “democrazia” esprime una sorta di imperativo di coscienza che nessuna forza al mondo potrebbe mai cancellare.
Si comprende quindi l’accanimento con cui movimenti e regimi politici e sociali si proclamano democratici (democratici sono ad esempio, i terroristi islamici che vogliono cacciare gli ebrei da Israele e gli americani che cercano di scovarli per arrestarli e magari per ucciderli; democratici sono sicuri di essere i fautori della pulizia etnica siano essi serbi, croati o bosniaci ecc.). Essi tentano di farsi scudo di quel nome, anche quando ne ripudiano le forme [13]; non lo fanno tanto per sedurre il popolo e ottenerne l’appoggio – infatti il popolo sa sempre distinguere l’etichetta da quel che ci sta sotto – quanto per evitare le conseguenze politiche della riprovazione morale che colpisce ogni sistema che metta in dubbio l’eccellenza della democrazia. Per convincersene basta osservare l’accanimento con il quale i regimi non democratici si sforzano di dimostrare la loro democraticità all’opinione pubblica internazionale (come avviene per la Cina). Basti pensare che, secondo la carta della Nazioni Unite tutte le nazioni associate devono essere democratiche; e lo sono, visto che siedono nell’Assemblea generale o nel Consiglio di Sicurezza. Democratiche come la Cina, sotto il cui regime “democratico” stanno poco più di un miliardo e 200 milioni di persone e dove, per tenere la massa sotto controllo, uno scippatore può essere condannato a morte (come mi raccontava il professor Raimondo Luraghi recentemente); o democratiche come gli USA di Clinton o di Bush, dove chi commette per tre volte un reato penalmente rilevante, anche se non gravissimo (per questo esiste del resto la condanna a morte), si può veder condannato all’ergastolo.
Ma cosa vuol dire davvero essere democratici? E la democrazia è effettivamente la miglior forma di governo? E come definirla, stante il fatto che oggi tutti si dicono democratici in ogni dove? L’equivoco sui concetti di maggioranza e minoranza si amplia fino a rendere ambigui – dice U. Spirito – tutti i termini del problema e pressoché inintelligibile ogni significato non arbitrario dell’ideale democratico. D’altra parte se il concetto di maggioranza è essenziale per ogni forma di democrazia, occorre precisare l’ambito in cui la maggioranza può comprendere e decidere. L’ambito della sua competenza, insomma. In qual senso la maggioranza è competente? In realtà la competenza può essere solo dell’individuo, e non sembra proprio la maggioranza quella che debba e possa decidere sulla competenza; anzi, solo la minoranza dei competenti potrebbe decidere, ma allora, saremmo già al di fuori della democrazia. Di fatto l’elettore, dice Spirito, è chiamato a decidere intorno ad un programma [14] che dovrebbe rappresentare una concezione della realtà, una filosofia, e che pretende di racchiudere la soluzione di alcuni fra i più ardui problemi della vita della società e dei singoli. Ma come lasciare la decisione di ciò all’arbitrio di una massa inarticolata? Non è questa capace soltanto di un atto di volontà cieca? Dice Spirito:
“La democrazia nella sua realtà storica e soprattutto nel consenso conformistico dei nostri giorni, sfugge ad ogni vera definizione e, per ciò stesso, alla possibilità di chiarire il valore dell’apparente consenso che l’accompagna.”
L’equivoco su cui si fondano le molteplici concezioni della democrazia contemporanea mette in forse la sicurezza con la quale alcuni pensano ancora di poterla opporre ad “autocrazia”. In sostanza il loro giudizio resta ancora alla superficie e sembra riposare su una concezione, diffusa nel mondo contemporaneo, secondo cui, da un lato, starebbero: il primato della libertà, l’occidente, il progresso, la modernità e lo spirito dinamico; dall’altro lato, invece, in contrapposizione: l’oriente, il medioevo, il dispotismo, il passato, l’immobilismo. L’origine di questa mentalità è da ricercare in quel giudizio politico che fa coincidere autorità e potere. [15]
Tradizionalmente, invece, il concetto di potere è legato a quello di forza; di una forza visibile e coercitiva.
L’autorità per affermarsi, invece, non ha bisogno di mezzi esterni: essa è evidente, non come forza costrittiva, ma come luce che illumina [16]. Nel potere si avverte l’arbitrarietà, mentre dall’autorità emerge come un movimento di liberazione, di promozione. Diceva Del Noce che il politico ha la funzione ministeriale e non quella dominativa, così esso governa, non opprime.
Il potere si subisce, l’autorità si accetta; e l’obbedienza all’autorità si manifesta come occasione indispensabile di crescita per ciascuno.
Avviene allora, però, una volta stabilita ed accettata arbitrariamente la coincidenza tra autorità e potere, che si inneschi, come esito di un processo necessario, l’esito rivoluzionario. E, infine, la liberazione come rivoluzione ha, come esito anch’esso necessario, il nichilismo e la dissoluzione. La prima contestazione del concetto di autorità e la sua riduzione a quello di potere (potere da cui sottrarsi e da distruggere per poter essere), a mio avviso, è da ricercarsi nella mentalità riformatrice protestante. Essa comunque è già presente in un certo modo, nell’occamismo nominalista di circa 150 anni prima di Lutero.
Ė senz’altro evidente che la crescente confusione tra potere ed autorità (fino alla scomparsa, per demonizzazione, di quest’ultima, anche dal linguaggio comune e familiare) si è accompagnata ad un’estensione delle filosofie immanentistiche, volontaristiche ed empiristiche e, soprattutto, attraverso il deismo e il naturalismo, dell’ateismo [17].
Ateismo e crisi del concetto di autorità si accompagnano in un processo che pare avere come esiti nichilismo ed insensatezza, arbitrarietà ed oppressione del potere. [18]
Di conseguenza un concetto di democrazia, fondato sulla coincidenza fra autorità e potere e nel senso di una scomparsa della prima nel secondo, si porta dietro un equivoco che, alla fine, rende oppressiva la democrazia, poiché la rende insensata. [19]
[1] E’ ciò che dovremmo riuscire a far comprendere al funzionario, al burocrate statale che sovente ritiene d’essere il padrone ed avere dei diritti supplementari rispetto a quelli dei comuni cittadini; i quali si vedono trattati con sufficienza e scortesia. Quella della burocrazia “padrona” è forse la piaga più grave che ci portiamo dietro come nazione unita, fin dal secolo scorso. Ad essa dobbiamo aggiungere l’arroganza ed il senso di impunità degli uomini politici, di molti, troppi partiti. In un’opera perduta di Aristotele, e con tutta evidenza indirizzata ad Alessandro vittorioso sui Persiani, viene richiamata la fondamentale distinzione tra egemone e padrone. Nel primo caso il governo è governo di liberi che accettano l’autorità, nel secondo caso, invece, il governo è governo di schiavi che subiscono un potere.
[2] Savonarola, infatti, pone a capo della Repubblica di Firenze, Cristo Re.
[3] Esito nichilistico che non è attenuato, anzi evidentemente aggravato, dalla veste anche totalitaria e rigidamente disciplinata che assume (come nel caso del nazionalsocialismo germanico).
[4] Come nel positivismo giuridico.
[5] Il Rosmini dice:”Una società condannata con mite sentenza ad essere affogata nel bagno dolcissimo delle passioni.”
[6] Egli intende per democrazia governata il regime di un tempo fondato sul potere della nazione, mentre la democrazia governante sarebbe quella fondata sul potere del popolo reale. Nella prima governa il cittadino, nella seconda l’uomo reale.
[7] Marx avvertiva molti hegeliani della sinistra di essere cauti nel considerare Hegel alla stregua di un cane morto; sarebbe un errore considerare Marx alla stesso modo.
[8] E’ per questa ragione che tenteremo invece un’apologia della democrazia; ma un’apologia ha un senso se tien conto della critica, non soltanto per rigettarla, ma anche per dare – là dove è possibile – una risposta positiva , uno sbocco costruttivo a ciò che di vero è nella critica stessa.
[9] La massa conosce mode transitorie, non tradizioni.
[10] Visione quantitativa della libertà presente nel pensiero moderno da Hobbes in poi.
[11] Basti pensare a Robespierre e all’uso disinvolto del più spaventoso terrore per convincere i riottosi cittadini ad essere liberi in una libera democrazia.
[12] Valori resi diversi in ciascuno e a seconda dei tempi, ma sempre identici.
[13] Si consideravano, inoltre, democratici Saddam Hussein in Irak, come i suoi avversari iraniani o sauditi; si considera democratico Fidel Castro come democratici erano gli oligarchi delle repubbliche sud americane.
[14] Che già gli esperti invitano a presentare sotto forma di slogans brevi ed accattivanti, per lo più molto superficiali per conquistare consensi in vaste aree e fra gli incompetenti, di solito. Certe semplificazioni hanno come risultato il travisamento degli stessi contenuti e al popolo va il messaggio dell’esperto in propaganda e non del pensatore o dello stesso politico. Avviene così che molti giornalisti specializzati si sostituiscano ai politici. A differenza di questi ultimi, però, i giornalisti non vengono mai allontanati e non pagano lo scotto di un’operazione sbagliata pur portandone la responsabilità. Sono sempre lì, a giudicare dell’uno o dell’altro, tuttologi che lanciano i loro giudizi su tutto e su tutti.
[15] Autorità: da auctor che parte da auge-re = accrescere, far aumentare, far prosperare. “Auctor”, è dunque colui che si preoccupa della crescita degli altri. Oggi autorità è un termine desueto, indica un aspetto negativo, qualcosa che soffoca e che impedisce la crescita; tuttavia è da tenere presente che, mentre autorità richiama la paternità ed evoca una mano che ti sorregge, ben diverso è il significato del termine, più largamente diffuso ai nostri giorni, “Potere”. Potere: mentre autorità richiama il padre ed Auctor sta per Dio, per Colui che genera e sorregge, potere = pòtis, indica chi può, chi domina, da cui deriva il comparativo pòtior (che può di più) e potìri = divenir padrone, possessore con il diritto di far checchessia. Con il sorgere dello Stato moderno il termine autorità è andato via via divenendo sempre più desueto, mentre è andato estendendosi l’uso del termine “potere” che ha assunto un posto preponderante nel discorso politico, sindacale, etc.
[16] L’evidenza, l’indubitabilità, è meravigliosa e ,quindi, manifesta il mistero, proprio come diceva Pascal : “Trop de vérité nous étonne.”
[17] Il termine ateismo non è di facile comprensione e si presta a molteplici abusi. In realtà meglio sarebbe usare quello di teomachia. Più di un’assenza della credenza in Dio si deve constatare una diffusa lotta contro Dio.
[18] Interessante, a questo riguardo, come ho già detto, è notare come nell’Enciclopedia Einaudi, non compaiano le voci “autorità” e “Dio”, mentre vi è rivendicata l’importanza centrale dell’ateismo come processo di liberazione della ragione dell’uomo fino alla sua completa autonomia. Prospettiva francamente riduttiva, quella dell’Enciclopedia Einaudi; riduttiva dell’uomo ad una sola dimensione che ha per esito la sua scomparsa di scena e la sua schiavitù nei confronti di un potere sempre più oppressivo e cieco.
[19] Nel Luglio del 2001 le autorità di Cannes in Francia hanno emesso un’ordinanza che vieta ai ragazzi inferiori ai 14 anni di uscire soli di notte per evitari il vandalismo, la microcriminalità dei minori o il loro sfruttamento. I movimenti per i diritti e per l’ambiente hanno protestato poiché così si porrebbero limiti alla libertà individuale! Che dire allora ad un bambino di quattro anni che si avvicina al fornello a gas per vedere che cosa bolle in pentola?
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Autore: Aldo Rizza
Titolo: LA DEMOCRAZIA: UNA QUESTIONE APERTA
Data di pubblicazione: 9 Dicembre 2020