In Lega “zitti e Mosca”, ma chi tace dissente
Riportiamo l’articolo, a firma di Stefano Rizzi, pubblicato su “Lo Spiffero” il 28 agosto 2019
Sceglie i giardini del Viminale Matteo Salvini per cercare una nuova primavera di governo che non verrà. Così come (salvo le tensioni esplose a tarda sera tra M5s e Pd sul ruolo di vicepremier da Luigi Di Maio facciano saltare tutto) non arriverà quel voto che il suo popolo dava per certo dopo la mossa del Capitano che chiudendo l’alleanza con i Cinquestelle era convinto di aprire la strada delle urne.
Il messaggio, in diretta Facebook da quel ministero passato in pochi giorni da luogo di lavoro, non proprio assiduamente frequentato, a bunker, nel quale si augura che Mattarella non permetta “questo mercimonio ancora a lungo” non contiene non uno schiaffo, ma neppure un buffetto a Di Maio. Dopo il fallimento della sua tattica, non rinuncia, fino alla fine, alla speranza di ricucire quel che ormai per l’ex alleato è definitivamente lacerato. Di questo ne è ormai certa gran parte se non tutta la Lega. E non sono rari quelli che, ingoiando il rospo del governo giallorosso al posto dell’abbuffata ai seggi, masticano amaro. In silenzio, ovviamente.
Non è il momento di sollevare critiche al Capitano: questo, non lo è mai. Però di fronte al più grande, forse unico, errore compiuto dal leader che è riuscito a prendere il partito al 4 per cento e portarlo ad oltre il 35, interrogarsi sulla scelta di “fare tutto da solo” come ha detto Giancarlo Giorgetti e non mettere in conto (o se lo ha fatto, non preparare neppure i quadri intermedi e pressoché tutti i parlamentari all’eventualità che qualcosa potesse andare storto) è il minimo che può fare chi ancora non si riprende dallo shock di veder svanire le elezioni e risorgere al Governo il Pd.
La consegna del silenzio si riduce con mezze frasi, pure qualcuna un po’ hard ma che rende l’idea, mutadis mutandis, al pari del “noi ce l’abbiamo duro” di bossiana memoria, con leggere ma dirimenti modifiche nel complemento.Vox populi leghista, ma anche voci raccolte dalle parti dei Palazzi nell’estate più torrida per il Carroccio. “Diciamola tutta – confida sottovoce, coperto dall’anonimato uno dei big del partito piemontese – hai voglia a chiamare militanti ed elettori alla mobilitazione contro il ribaltone quando abbiamo fatto tutto noi, da soli”.
Parole centellinate anche dai vertici in queste ore in cui la speranza diventa illusione, spenta anch’essa ieri dal pragmatico Giorgetti che alla Berghem Fest cita senza timori la parola opposizione, anche se poi alza il tono e parla di quello che nascerà come di “un Governo contro il popolo”. Gira e rigira è sempre il Nord che fa sentire la sua voce: forte nel sostenere il Capitano flebile ma udibile per dire che anche lui stavolta non l’ha azzeccata.
Chi sgombra il campo dall’idea di un sconcerto e pure di incazzature all’interno della Lega per la piega che ha preso la vicenda è il capogruppo alla Camera, nonché segretario regionale Riccardo Molinari. Calibra e soppesa le parole. Ripete e riconferma come il punto di rottura – detto da chi l’alleanza con i Cinquestelle non l’ha mai del tutto digerita fin dall’inizio – “c’è stato con il voto dei grillini per eleggere la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen. Salvini ha capito che non si poteva andare avanti. Se non si fosse rotto ad agosto si sarebbe rotto sulla legge di bilancio. Non mi pare utile discutere sul timing, poteva essere prima, poteva essere dopo, di certo nel partito sono tutti d’accordo che non si potesse andare avanti così”.
Parlando con i suoi, Molinari, declina il ragionamento spiegando come Giuseppe Conte e Giovanni Tria siano in qualche modo legati all’establishment europeo e a questo abbiano dato rassicurazioni di una legge di bilancio sotto il 2 per cento, “il che – come ha più volte ripetuto lo stesso Salvini – significa non abbassare le tasse e magari far saltare pure quota cento”, per non dire della flat tax, promessa dalla Lega. “Siamo andati avanti un anno in Piemonte a spiegare che la Tav andava fatta e però passavamo per quelli che non la volevano. Sergio Chiamparino ci attaccava, diceva che stavamo con Toninelli. Adesso pare che proprio lui possa andare a fare il ministro con quelli che la Tav non la vogliono”, osserva il numero uno dei leghisti a Montecitorio, registrando un diffuso “sollievo tra i nostri parlamentari per non dover faticare più tutti i giorni per trovare una mediazione con gli la pensa in maniera opposta”.
Ecco, forse sta proprio in quella distanza siderale tra il contratto di governo e le rispettive attestazioni di amorosi sensi scambiati per oltre un anno dai due capi politici e vicepremier, ad aver suscitato quei sentimenti ufficialmente taciuti che serpeggiano in più di un’esponente del Carroccio. “Abbiamo ridotto la nostra azione politica al solo tema dei migranti e degli sbarchi – ragiona un parlamentare – . Per carità, battaglia sacrosanta ma abbiamo tralasciato tutta una serie di questioni che da sempre sono nel nostro dna: la lotta allo Stato centralista, la riduzione dell’imposizione fiscale, il sostegno alle imprese”. Tra i parlamentari e persino nella nutrita pattuglia di Palazzo Lascaris è ormai chiaro come le difficoltà della leadership sia legata indissolubilmente alla insufficienza della proposta politica. “Matteo ha deciso tutto da solo. Un capo decide sempre da solo”. E il capo ha sempre ragione, come sta scritto su quei maldestramente ironici cartelli che non fanno ridere nessuno. Come nella Lega alla vigilia di quel ribaltone che imporrà un cambio di rotta. Magari disturbando di più il manovratore.