Il mito? Si è nascosto tra cellulari e spot

Riportiamo il testo dell’intervista a Marcello Veneziani, a cura di Carlo Dignola, pubblicata su L’Eco di Bergamo il giorno 8 novembre 2019
Il nostro sembra un mondo disincantato, secolarizzato, in cui non c’è spazio per ricostruzioni immaginifiche ed emotivamente cariche. A 150 anni da Nietzsche respiriamo tutti una vasta atmosfera nichilista. C’è un mito, però, che resiste – fa notare Veneziani – ed è quello di Narciso, il bel cacciatore della cultura greca antica che s’invaghisce della sua immagine riflessa. Basta guardare il mondo dei social network: «Il mondo sono io, e il selfie lo certifica».
«Il narcisismo “classico” però – dice il giornalista, scrittore, filosofo – era per antonomasia una malattia individuale e singolare, mentre oggi siamo nell’epoca del narcisismo di massa: ciascuno si sente speciale, tutti considerano il mondo come lo sfondo, il display della propria vita. Il mito dell’io, dell’”ego” è il mito portante nella nostra epoca, la convinzione che tutto ruoti attorno a noi: direi che l’”io” è il primo surrogato di mito del nostro tempo».
Lei chiama “mitoidi” queste epiche prét-a-porter: di illusioni ne abbiamo nella testa ancora molte?
Ho l’impressione che abbiamo scacciato dal portone principale i miti nel nome di una cultura illuminista, e questi sono poi rientrati dalla porta di servizio, in forma di contraffazioni. Vivono nella nostra epoca sotto falso nome, collegati soprattutto al mondo dei consumi, alla pubblicità, in cui c’è una rappresentazione mitologica dei prodotti piuttosto lampante, che serve a smerciarli. Ma il mito è vivo anche in molti altri ambiti come lo sport, il cinema, la fiction: è una dimensione più che mai presente, ma lo è in queste forme surrogate. E nell’età del narcisismo di massa, tra mito e mitomania il passaggio è breve.
Già: al grido di “sei un mito”, si vendono automobili, creme anti-rughe, fughe supereroiche nella fantasia… Anche la fiction appoggia i suoi successi a mitografie pseudo-medievali: insomma, davvero non possiamo fare a meno del mito?
Noi cerchiamo sempre veicoli che ci portino altrove. Il cinema, la fiction, ma anche lo smartphone hanno questa funzione: dimostrare che non tutto si risolve in quello che vediamo e tocchiamo, c’è sempre una dimensione ulteriore, epica, eroica, fantastica o semplicemente remota, come quella che possiamo trovare tramite Internet. L’Altrove ci manca, e lo cerchiamo attraverso queste forme degradate.
La vita feriale ci annoia, cerchiamo emozioni più forti.
Il mito caratterizza l’amore, noi mitizziamo la persona amata, la riteniamo unica, insostituibile; il mito costruisce i nostri ricordi, l’esercizio della nostalgia è un’opera di selezione del passato che noi facciamo mitizzandone alcuni aspetti e atmosfere. Il mito ci appartiene. E quando non riusciamo a rielaborare questo rapporto con esso, lo subiamo attraverso le forme superstiziose della mitologia attuale.
Diceva Chesterton: «Quando la gente smette di credere in Dio, non è che non creda a nulla, crede a qualunque cosa».
Ho in mente un’altra osservazione analoga: “Dopo i credenti, verranno i creduloni”.
Più che essere figli di Prometeo, lei dice, oggi siamo in balia di Proteo, divinità delle acque, in grado di assumere qualsiasi aspetto.
Il mito di Prometeo, che ruba il fuoco, la tecnica agli dei per farne dono all’uomo è alla base del grande progresso scientifico e tecnologico. Oggi la ricerca scientifica è applicata all’idea di trasformare se stessi. Siamo diventati esseri mutanti, tutto ciò che muta per noi è positivo, siamo in un’epoca transgenica in ogni senso, dai prodotti orto-frutticoli al corpo umano. Il XXI secolo ha questa vocazione proteiforme, più che a modificare e padroneggiare il mondo ormai pensiamo a riplasmare noi stessi. L’idea di liberarci della nostra natura per inventare un’altra realtà che assecondi il nostro desiderio e la nostra volontà si diffonde: un aspetto inquietante.
In altre sue opere come Amor fati e Nostalgia degli dei dà un punto di vista molto laico: lei sottolinea ii ruolo del destino nella vita, andando controcorrente.
Ho rivalutato la categoria del destino in opposizione alla convinzione che sia il caso, e quindi il caos a dominare tutto. Il destino è un disegno intelligente. La forza dell’uomo è quella di divenire ciò che è, a partire anche dai suoi limiti e imperfezioni; non rigettando ciò che caratterizza il suo essere. Il destino è il senso del nostro limite. Io credo nella “scommessa” di cui parlava Blaise Pascal: noi possiamo ritenere che siamo nati per puro caso, oppure assegnare all’esistenza un significato. Nel momento in cui scegliamo di dare o non dare peso al nostro destino, adottiamo una visione del mondo coerente con questa idea. Scegliere l’una o l’altra strada è un atto razionale, consapevole, di libertà: poi, quando l’hai presa, ti accorgi che tutto torna.
La cultura oggi prevalente ci considera degli esseri vaganti che vivono nell’assoluta libertà, quindi nell’assoluta indeterminatezza. E questo, a mio parere, il seme del nichilismo: quando non c’è scopo, quando tutto è reversibile e tutto può essere il contrario di tutto, ci siamo entrati in pieno. Crediamo di avere il massimo della libertà, ma alla fine ci rendiamo conto di essere i sovrani assoluti di un regno che non ha territorio. E lo scacco estremo della libertà: la libertà sconfinata, da ultimo sconfina nel nulla e quindi si rovescia nel suo contrario. Una libertà smisurata, nella dismisura sparisce: è l’ebbrezza del Nulla».