FINANZA PUBBLICA ITALIANA, UN SALTO VERSO L’IGNOTO di CARLO MANACORDA *
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Approvando il decreto liquidità per 400 miliardi di euro, il Governo Conte dice di aver messo in campo una “potenza di fuoco” capace di (stra)vincere ― con le misure già deliberate che movimenterebbero altri 350 miliardi di euro (curiose espressioni d’effetto, ma economicamente insignificanti) ― la recessione creata da Covid-19. A prescindere dal fatto che si tratta di decreti legge, tutti da convertire in legge ― e, quindi, affatto certi sui contenuti finali (ci sono ampi dissensi non soltanto nelle opposizioni, ma anche nella maggioranza) ―, non c’è dubbio che, di primo acchito, le decisioni governative assunte appaiono di “poderosa” (aggettivazione di Conte) portata, apparentemente idonee a determinare la ripresa dell’economia colpita dalla gravissima crisi causata dall’epidemia Coronavirus.
Eppure, analizzando questi provvedimenti un po’ più a fondo, nasce il timore che la loro approvazione stia facendo compiere, alla finanza pubblica italiana, un salto verso l’ignoto. Non è infatti sfuggito che, al di là delle faconde illustrazioni (autocelebrative) fornite durante la loro presentazione, nulla di certo è stato detto in merito alle loro coperture finanziarie. In poche parole: da dove proverranno i fondi necessari per rendere operativi i provvedimenti, e quale sarà il costo finale per il Paese della loro attuazione. E’ palese che, mancando queste indicazioni ― che, tra l’altro, la stessa Costituzione richiederebbe come obbligatorie (art. 81), col che non guasterebbe se anche la Corte dei conti li valutasse un attimo sotto questo profilo ―, il futuro della finanza pubblica italiana diventa totalmente oscuro. Ciononostante ― anche tenendo conto di elementi che emergono da dibattiti in corso ― i silenzi governativi sulle coperture finanziarie di cui stiamo parlando possono essere riempiti esplorando due ipotesi.
La prima ipotesi, immediata, è quella di pensare ad una crescita del debito pubblico sufficiente a coprire gli oneri derivanti dagli interventi votati. Indurrebbe a questa conclusione l’interpretazione letterale delle parole usate nell’annuncio dei provvedimenti: tutte le garanzie “saranno a totale carico dello Stato”. D’altro canto, anche le regole dell’economia insegnano che, nelle fasi negative del ciclo economico, è lo Stato che deve intervenire con oneri a carico del suo bilancio e con aumento del suo debito. Posizioni analoghe sono presenti negli Stati dell’Unione europea (Ue) e, in generale, in tutti i Paesi colpiti dalla pandemia Covid-19.
Ma l’Italia è in condizioni di poter aumentare il proprio debito pubblico ― tra l’altro negli importi giganteschi richiesti dai provvedimenti di Conte ― senza pagare prezzi altissimi che ricadrebbero sull’intera economia del Paese? Se questa fosse l’ipotesi da applicare, c’è la certezza che ciò accadrebbe. Alcuni dati possono essere illuminanti al proposito.
Il debito pubblico italiano ammonta a 2.500 miliardi (134% del Pil, cioè di tutta la ricchezza prodotta dal Paese, 74 punti in più di quel 60% fissato dai Patti europei). Il Bilancio dello Stato italiano per il 2020 (approvato ante Covid-19) ne prevede il costo per interessi in 80 miliardi. Sempre il Bilancio dello Stato 2020 ante Covid prevede che occorre aumentare l’indebitamento di ulteriori 78 miliardi. In soldoni, occorre fare ulteriore debito per pagare gli interessi di quello già esistente.
Ipotizziamo che il debito pubblico aumenti per coprire, per intero, tutta la “potenza di fuoco” decisa da Conte. Senza perderci nelle complesse articolazioni dei provvedimenti decisi, e tenendo conto di alcune gradualità previste nei decreti, potremmo pensare ad un debito che arriverebbe ad aggirarsi tra i 3.100/3.200 miliardi. Tenendo conto delle valutazioni fatte sulla diminuzione del Pil a causa dell’epidemia, il debito pubblico dell’Italia salirebbe al 200% di esso. Cioè, pensando che il Pil arrivi a collocarsi tra i 1.600/1.700 miliardi, il debito pubblico ne rappresenterebbe quasi il doppio.
La sospensione del Patto di stabilità e crescita potrebbe anche escludere trattative per il mancato rispetto dei vincoli posti in materia dai Trattati europei. Ma che durata dovrebbe avere un debito di queste proporzioni per spalmarne il costo nel tempo? Ovviamente pluridecennale. E, infatti, non mancano proposte ― com’è avvenuto in periodi bellici ― di prestiti obbligazionari statali irredimibili, prestiti cioè che pagherebbero per sempre interessi allettanti senza rimborso del capitale (chi li propone pensa che sarebbero accettati in considerazione del buon rendimento e, perché no, dell’orgoglio nazionale di non dover ricorrere tutte le volte alle elemosine esterne e, particolarmente, dell’Europa).
E che costo per interessi dovrebbe accollarsi il Bilancio dello Stato per tutta la durata dei prestiti, con sottrazione (fino all’inesistenza) di risorse utili per sostenere i settori dell’economia pubblica e privata? Certamente, il Governo Conte ha ben presenti questi fatti. Tolte le obbligazioni irredimibili, ci sarebbe un’impennata del noto spread che porterebbe a dover pagare sui titoli dello Stato italiano interessi elevatissimi.
Ed allora si pensa ad altri garanti, pescando nella galassia delle società di Stato ― quelle cioè che, pur gestendo denaro pubblico, usando i consueti arzigogoli italici si considerano fuori dal perimetro della finanza pubblica ―. Girano i nomi di Cassa Depositi e Prestiti (CDP) (l’ente ad utilizzo universale per tutti i bisogni dello Stato, una sorta di Banca d’Italia parallela) e SACE, una Società del gruppo CDP specializzata nel settore assicurativo-finanziario particolarmente riguardante l’export. Non si esclude che l’Europa voglia vederci chiaro in questo artifizio (il Patto di stabilità è sospeso, non annullato). Ma sulla scelta del garante para-statale, il Governo Conte deve ancora sedare le risse scoppiate tra componenti del suo governo per la difesa di poteri. Altre incognite nel futuro della finanza pubblica italiana che giustificano i timori del salto verso l’ignoto.
La seconda ipotesi è quella che vede negli aiuti europei la copertura totale o parziale degli oneri finanziari dei provvedimenti decisi da Conte. Qui il dibattito riguarda:
- Eurobond/Coronabond (titoli obbligazionari emessi direttamente dall’Europa e garantiti dal suo bilancio);
- ricorso al MES (il Meccanismo Europeo di Stabilità ― più noto come Fondo Salva Stati ― costituito nel 2012 per aiutare, con prestiti, gli Stati dell’Ue in difficoltà finanziaria; prestiti tuttavia concessi a dure condizioni, con un quasi “commissariamento” dello Stato che li chiede, e invio della famosa “troika”― caso Grecia );
- “Sure” (Support to mitigate unemployment risks in emergency) (pacchetto di misure da 100 miliardi studiato dalla Commissione europea che, attraverso 25 miliardi di garanzie volontarie degli Stati, dovrebbe intervenire come “cassa integrazione europea” per salvare posti di lavoro);
- interventi da parte della Banca Europea degli Investimenti (BEI).
Conte caldeggia gli Eurobond. Alcuni partner europei sono contrari (Olanda, Germania e, in generale, Paesi del nord Europa). Ritengono ― non a torto ― che, se l’Europa s’indebita per conto di tutti gli Stati, ciascuno di questi evita di fare lui debiti per le stesse necessità già soddisfatte dai debiti dell’Europa. E così i debiti occorrenti anche per il nobile scopo di superare la recessione causata da Covid-19 ricadrebbero su tutti gli Stati, sia sugli spendaccioni, sia sui parsimoniosi. E per i contrari agli Eurobond, tra gli spendaccioni c’è l’Italia di cui conoscono bene l’enormità del debito già esistente.
Sotto la spada di Damocle del M5S che proprio non ne vuole sentire parlare, Conte rifiuta il MES. Se ci fossero prestiti da parte del Fondo Salva Stati, devono essere concessi senza condizioni. Sono contrari a questa posizione tutti i Paesi Ue già contrari agli Eurobond. Sottolineano che, se ciò avvenisse, violerebbe i Trattati europei. Se interviene il MES, devono essere poste condizioni, magari meno rigorose di quelle applicate alla Grecia con la Troika (però l’Olanda è per il massimo rigore), ma pur sempre da osservare da chi ottiene i prestiti.
Sul “Sure”, si stanno definendo le modalità di applicazione. E così sugli interventi della BEI. Unico dato certo è che, finora, non si è raggiunto alcun accordo sugli aiuti dell’Europa agli Stati. Quindi anche all’Italia. Per noi a copertura degli oneri derivanti dalla “potenza di fuoco” scatenata dal Governo Conte.
Occorre anche tener presente che, qualora fossero dati aiuti, non saranno concessi gratuitamente, ma avranno un costo per interessi e restituzione del capitale. Che, in ogni caso, gli aiuti non sarebbero dati a totale copertura dei provvedimenti approvati dal Governo Conte, ma soltanto parziale, il che richiederà che lo Stato pensi a coprire la differenza. E che la concessione di somme potrebbe avvenire soltanto per progetti ben definiti negli obiettivi e nelle risorse occorrenti per la loro realizzazione. All’Europa non bastano i proclami indefiniti e fumosi.
Ecco perché, in presenza di tali e tante vaghezze, si ha il timore che il procedere degli atti assunti dal Governo Conte, anziché rilanciare l’economia, facciano compiere alla finanza pubblica italiana un salto verso l’ignoto.
* Carlo Manacorda – docente di Economia pubblica ed esperto di bilanci pubblici
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Autore: Carlo Manacorda
Titolo: FINANZA PUBBLICA ITALIANA, UN SALTO VERSO L’IGNOTO
Data di pubblicazione: 11 aprile 2020