COME USCIRE DALLA CRISI? di RICCARDO LALA – PARTE 1

Proseguendo nell’attuazione dei propri fini statutari, http://www.rinascimentoeuropeo.org/statuto/Statuto.pdf, RINASCIMENTO EUROPEO ha creato, sul proprio sito web www.rinascimentoeuropeo.org, uno spazio interamente destinato a raccogliere scritti e riflessioni su temi d’interesse generale che rientrino nelle finalità dell’Associazione.
* * *
Ammesso che si trovi un modo per uscire in sicurezza dal Coronavirus (cosa che non è certa neppure in Cina, l’unico Paese che ha superato di sicuro il “picco” dell’infezione, ma probabilmente con costi superiori al previsto), giustamente i politici si preoccupano di come superare la crisi
economica incombente -ora, ma, soprattutto, subito dopo-.
Crisi di cui, giustamente, non si può prevedere la gravità. Primo, perché non se ne conosce la durata; secondo, perché covava (eccome) già da prima, ma non si era ancora potuta manifestare pienamente. Di converso, ci potrebbero essere a questo proposito delle sorprese, e non è detto che molte imprese e individui non escano perfino avvantaggiati dall’ epidemia, visto che, almeno in Italia, una popolazione sempre maggiore di anno in anno stava già lavorando in perdita. Imprese che s’ indebitavano sempre più, e le cui riserve (anche occulte) si deprezzavano continuamente; lavoratori e professionisti che, fra trasporti, trasferte, materiali e tasse, incassavano meno delle spese per la produzione del reddito, mentre, stando a casa, almeno risparmiano sulla benzina, i mezzi pubblici, le mense, il riscaldamento, le manutenzioni, le multe, gl’incidenti, ecc..
Ciò detto, sono comunque necessari investimenti di emergenza, tanto per puntellare il traballante sistema sanitario allargato (che oramai comprende anche i big data, le forze dell’ordine e le forze armate dedicate), quanto per gli aiuti d’emergenza a imprese e famiglie, che debbono, intanto, sopravvivere, e, poi, ripartire su nuove basi. Per questo occorre sospendere, se non abrogare, gl’illogici limiti di bilancio imposti all’ Europa (cosa che si è per fortuna già fatta), e occorrono anche aiuti straordinari, che sarebbe tanto bello se fossero pienamente “europei” e non passassero attraverso macchinosi marchingegni come i “Coronabond” che ne riducono l’impatto, prima d’immagine, poi anche economico.
Per non parlare del MES. I “coronabonds” non sono contanti, e non sono vincolati a un preciso piano di rilancio. Anche perché gli Europei non possono fare finta di non accorgersi che due terzi dei casi sono proprio in Europa, accelerando la già avanzata degenerazione del nostro Continente. Come scrive su Micromega l’amico Alberto Bradanini: “Le economie dell’Europa sono sull’orlo del baratro“. Ma i coronabonds non basteranno a evitarlo”. Cercherò di rispondere alle diverse tesi di Bradanini (e di altri) nel corso di questo post, necessariamente limitativo, perché non si può postare un trattato di economia. Tuttavia, stiamo preparando pubblicazioni dettagliate su questi argomenti, che porteremo al più presto all’ attenzione della pubblica opinione e delle Autorità.
- Superare la debolezza strutturale dell’economia
Tuttavia, il vero problema non sono i coronabonds, bensì la debolezza strutturale dell’economia europea, e, in particolare, di quella italiana, evidente già prima del coronavirus (basti guardare gli andamenti statistici su cui mi sono già soffermato in passato e su cui qui non torno), ma che la crisi del coronavirus purtroppo si presterà benissimo ad occultare in un mare magnum di guai non identificabili, come i morti cremati a Wuhan.
Un’ economia complessa, la nostra, che comprende innanzitutto un vastissimo settore di “servizi” (il 70% circa), di cui è molto difficile capire la reale composizione anche per motivi tecnici, come il sommerso, la valutazione “politica” del settore pubblico, l’evasione e soprattutto l’erosione fiscale delle multinazionali. Grosso modo, i sub-settori più importanti fra i servizi sono quello dei servizi pubblici, del turismo, della ristorazione, dei servizi alle imprese e alle persone. Scrive intanto a questo proposito Bradanini: “…..in ogni paese del mondo, dalla Cina agli Stati Uniti, alla Svezia, il principale datore di lavoro è lo Stato.
Ed era così anche in Italia fino all’arrivo dell’Euro, quando gli apparati pubblici hanno iniziato a sguarnirsi di personale e oggi languono esausti, con uffici e competenze svuotate.” Mentre l’Italia in generale è ancora il settimo esportatore del mondo, per l’esportazione di servizi (che, come dicevamo, sono il settore più sostanzioso), essa si situa addirittura sotto la media. Il che dimostra ulteriormente la sua arretratezza, perché normalmente gli esportatori di servizi (culturali, tecnologici, digitali, finanziari, aziendali, legali) sono i Paesi più sviluppati del mondo.
I problemi maggiori sono costituiti:
– dal controllo sempre maggiore sulle nostre imprese, soprattutto su quelle più prestigiose (FIAT, Pirelli, ILVA, Ansaldo, Avio), da parte di gruppi stranieri (essenzialmente extraeuropei);
– dalla sottrazione continua di valore da parte delle multinazionali del web (Google, Facebook, Amazon, AirB&B), le quali, senza pagare tasse e senza trasferirci le loro tecnologie, prelevano buona parte del valore aggiunto delle nostre produzioni, attraverso lo spionaggio industriale, la profilazione della clientela, la canalizzazione della pubblicità, o anche solo i costi d’intermediazione;
– dall’assenza d’imprese importanti nei settori più promettenti (web industries, big data, 6G, calcolo quantico, green technologies), salvo lo spazio (talmente aborrito dalla cultura mainstream, che non se ne sente mai parlare);
-dalla mancanza di una politica coordinata di promozione dei nostri settori qualificanti, come cultura, turismo e lusso.
Nonostante la fama mondiale conquistata in tempi passati da alcuni sub-settori, come l’automobile, la moda e l’agroalimentare, la redditività delle nostre imprese è perciò molto bassa. I maggiori flussi di cassa vanno verso gli azionisti esteri, le holding internazionali, le multinazionali della consulenza, gli espatriati localizzati in Italia, le esterovestizioni, mentre all’ Italia restano solo redditi tutto sommato marginali, come quelli dei professionisti italiani, del middle management, degl’impiegati e operai delle residue sedi produttive, dei livelli più bassi dell’ indotto (con le relative negative conseguenze per il gettito fiscale italiano).
2. Storia dell’entropia dell’economia italiana
Molti, a cominciare da Bradanini, sostengono che l’Italia si troverebbe in questa disgraziata situazione per effetto di una manovra tedesca, che avrebbe manipolato la costruzione europea per farla coincidere con i propri interessi. Non mi sembra che, né la Germania abbia tratto particolare giovamento da questa situazione, visto che la sua economia stava già precipitando come la nostra, né che abbia potuto influenzare particolarmente la decadenza dell’economia italiana.
Quest’ultima deriva piuttosto da una vera e propria regia a lungo termine dell’ America, che ha persuaso la politica e l’economia italiane ad adattarsi ad un costante ruolo di “follower”, come quando si è voluta uccidere la Olivetti, si è spinta l’industria automobilistica verso le basse cilindrate (notoriamente meno redditizie), si sono acquisite le industrie di alta tecnologia come il Nuovo Pignone e l’Avio, ecc..
Orbene, anche i sassi sanno che, nel XXI secolo, chi non è il più innovativo è sempre perdente. Quindi, con quelle operazioni, già tanti anni fa si era decretata la condanna a morte dell’Italia quale grande potenza economica. Molte delle tendenze politiche e culturali dell’ultimo cinquantennio (neo-liberismo internazionale, globalismo, operaismo) vanno lette come semplici coperture ideologiche di questa banale realtà.
La stessa Germania e tutta l’Europa sono state succubi di queste politiche, ed è per questo che ora siamo tutti qui a tirare una coperta divenuta troppo corta. Inoltre, l’Italia era uno dei maggiori beneficiari dell’ export delle grandi corporations tedesche (per esempio verso la Cina), e quindi la crisi tedesca aggrava la crisi italiana. Certo, all’ interno dell’Unione, la Germania ha potuto difendere le proprie imprese più tradizionali grazie all’ adozione di un sistema politico “di partecipazione” che ha tolto molto potere al capitalismo privato, influenzabile da considerazioni personalistiche, lobbistiche e familiari, trasferendolo piuttosto a sindacati e Enti locali, istituzionalmente preposti alla tutela degl’interessi del territorio. Basti guardare alla “Legge Volkswagen”.
Invece, in Italia, le forze culturali e politiche dominanti, marxiste e cattoliche, avevano scelto, per motivi diversi, il modello dell’“autonomia delle parti sociali”, apparentemente più favorevole ai lavoratori, ma nella sostanza per nulla attento agl’interessi a lungo termine delle imprese e prono agl’interessi personalissimi o familistici di singoli azionisti. Un’impresa tedesca non può trasferire la sede all’ estero, perché una simile decisione dovrebbe passare da un Consiglio di sorveglianza dove siedono i sindacati, e, spesso, lo stesso Governo.
Io mi guarderei dal criticare altri solo perché hanno scelto sistemi più efficienti del nostro. Inoltre, lo strano ircocervo dell’Euro ha incentivato la continuazione e l’allargamento della tradizionale politica tedesca di stabilità monetaria, favorevole alle produzioni di altissima qualità e sfavorevole alle produzioni economicamente marginali e tecnicamente mature (come quelle italiane).
Tuttavia, non si sarebbe comunque potuto imporre a tutta l’Europa di continuare a produrre magliette in concorrenza con il Bangladesh. E ricordiamoci anche che la Germania ha una popolazione molto superiore a qualunque Stato europeo, e, anche a causa della sua posizione centrale (oltre che dei collegamenti logistici, storici, culturali ed etnici con tante parti d’Europa), ha sempre avuto, nella storia, un ruolo molto importante, qualunque ne fosse la copertura ideologica e istituzionali.
* * *
Autore: Riccardo Lala
Titolo: Come uscire dalla crisi?
Data di pubblicazione: 4 aprile 2020
Articolo pubblicato contemporaneamente su “alpina diàlexis” (http://alpinasrl.com)